Appesi lassù, in cielo, mentre il mondo si mette a ballare sotto i piedi. Quando arrivano le turbolenze, i dodici protagonisti del nuovo libro di David Szalay se la vedono davvero brutta. Non solo per quegli improvvisi tanghi indiavolati che sono costretti a improvvisare tra le nuvole, chiusi dentro una scatola d’acciaio. Ma anche perché la vita stessa li porta ad affrontare continue, improvvise deviazioni dalla loro rotta quotidiana. E spesso, guardare negli occhi la realtà può essere molto complicato.
Le “Turbolenze” di Davis Szalay, tradotte da Anna Rusconi per Adelphi (pagg. 127, euro 15), proiettano il lettore in una dimensione narrativa tutta da decifrare. Storia dopo storia. Perché, in apparenza, i dodici racconti sembrano slegati, autonomi. Ma poi, leggendoli, ci si accorge che sono come le stanze di un appartamento disposte a formare una lunga fila. E ogni volta che apri una porta, ti ritrovi in compagnia di una delle persone che abitava lo spazio che ti sei lasciato alle spalle. Ma quale?
Così, facendo il giro del mondo a bordo degli aerei, l’autore nato a Montreal che vive a Budapest, e che due anni fa ha conquistato la critica e i lettori con “Tutto quello che è un uomo”, vincitore del Gordon Burn Prize e finalista al Man Booker Prize, costruisce un perfetto gioco letterario di incastri. Perché “Turbolenze” parte da Londra, esplora il mondo con gli occhi di chi deve imbarcarsi su un aereo, e poi fa ritorno a Londra, dopo dodici tappe tutte uguali. Eppure profondamente diverse. Perché se la protagonista della prima storia subisce a tal punto la paura dell’aereo, e il ballo indiavolato della macchina volante, da finire all’ospedale, altri protagonisti di questa lunga catena di storie dovranno fare i conti con l’impossibilità di nascondere i propri piccoli segreti. Di gestire sentimenti che si fanno sempre più invasivi. Di accettare le sofferenze e le spesso dolorose sorprese che la vita riserva.
Ospite della ventesima edizione di Pordenonelegge, David Szalay ha costruito un romanzo fatto di racconti, dalla struttura del tutto originale. Un piccolo gioiello di invenzione letteraria, “Turbolenze”, dove la vita non è mai come appare. E spesso bisogna trovare il coraggio di andare al di là delle apparenze. Di non aggrapparsi troppo a un rispetto rigido delle regole del gioco. Perché, altrimenti, si finisce per perdere la traiettoria. Per restare intrappolati in quei non luoghi di senso che abitano le nostre giornate. E che assomigliano ai non luoghi per eccellenza: gli spazi degli aeroporti.
“Questo libro nasce da un lavoro commissionato dalla Bbc – spiega David Szalay -. Volevano che scrivessi qualcosa di analogo al mio libro precedente, ‘Tutto quello che è un uomo’. In questo caso io dovevo inventare dodici storie diverse, completamente autonome, ma che avessero in comune qualcosa. Ci ho pensato un po’, poi ho proposto di far corrispondere a ogni racconto una tratta aerea. E loro hanno accettato”.
La struttura stessa del libro è mutata?
“Volevo che ci fosse una certa differenza rispetto al romanzo del 2017. Anche se il concept è rimasto un po’ lo stesso. Da qui deriva la scelta di ambientare le storie in uno scenario globale, e non solo in Europa. Non mi bastava più raccontare soltanto vite di uomini, ma avere per protagoniste anche sette donne”.
Si è divertito a costruire questo perfetto mosaico a incastro di vite e personaggi?
“Sì, molto. Mi sono messo a pianificare su una carta geografica i dodici voli aerei sparsi per il mondo, partendo da Londra e ritornando alla fine lì. Scegliendo gli altri luoghi dove ambientare i racconti, ho deciso, poi, di descrivere sempre aeroporti e città che conosco, che ho visitato. Spero che anche i lettori si divertano quando scoprono il meccanismo delle mie storie. E provino un piccolo brivido di suspense nell’immaginare chi sarà il personaggio del racconto precedente a essere in primo piano in quello successivo. Perché tutto il libro è costruito come una catena, in cui ogni anello è legato all’altro”.
Le sue “Turbolenze” sono come certe sequenze musicali minimaliste. Dove un pattern di suono, sempre uguale, muta con l’inserimento di improvvise variazioni?
“Mi sembra ottimo il paragone. Nel libro non c’è tanto una trama, quanto uno schema, un pattern che la sostituisce, facendo la stessa funzione. Io volevo trovare continue variazioni delle storie in cui certi elementi sono comuni, si ripetono, per tenere sempre alta l’attenzione del lettore. Però, dovevo stare attento che queste variazioni fossero efficaci, forti, per non scivolare mai nella noia. Così, il mio impianto narrativo si è sviluppato per strati”.
Doveva rispettare una lunghezza precisa?
“Gli episodi radiofonici dovevano durare tutti 14 minuti. E questo è abbastanza inusuale non alla radio, ma in un libro di racconti. Però è interessante, perché si può usare questo vincolo di lunghezza in maniera espressiva. Voglio dire che ogni personaggio viene costruito dallo scrittore con la medesima attenzione”.
I cambiamenti climatici rendono sempre più frequenti, e peggiori, le turbolenze aeree. Anche quelle umane?
“Non pensavo che il cambiamento climatico fosse responsabile di un aggravamento delle turbolenze aeree. Ma, in effetti, dev’essere così. Non mi azzarderei a dire che lo stesso effetto si ripercuote sulla vita delle persone. Certo, nel libro, la prima turbolenza aerea, che crea alla protagonista notevoli problemi fisici, diventa una metafora di quanto imprevedibile possa essere la vita. Metafora che, poi, si ripropone in tutte le dodici storie”.
Paura di volare?
“Ho paura delle turbolenze, più che di volare. Mi innervosiscono tantissimo. Lo scrivo nel libro, questi improvvisi vuoti d’aria ti tolgono ogni illusione di essere al sicuro. E, in un attimo, sparisce tutto quello che l’equipaggio fa per farti sentire a casa: i film, il cibo, le bibite, la gentilezza. Quando l’aereo comincia a ballare, spazza via tutte le certezze. E ti rendi conto di essere in una situazione di pericolo”.
<Alessandro Mezzena Lona<