Si capiva fin dalle prime righe che Pinocchio non gli stava simpatico. E sì, perché Dino Buzzati, come incipit di una prefazione che aveva scritto per una versione illustrata del libro di Carlo Collodi, pubblicata da Antonio Vallardi in un’edizione fuori commercio, aveva scelto un eloquente “ogni generazione ha il Pinocchio che si merita”. Volendo dire, con quella frase, che il burattino negli anni Sessanta cominciava a odorare “un po’ di vecchiume”. Sapeva, insomma, un po’ di muffa agli occhi delle nuovissime reclute”. Anche perché, in quel periodo, i ragazzi preferivano sognare sugli albi a fumetti di Gordon, Mandrake, Paperino, Tom & Jerry. Personaggi, insomma, meno retorici, più ironici e avventurosi.
C’era un motivo, però, che aveva spinto Dino Buzzati, autore di quel capolavoro che è il “Deserto dei Tartari” ad accettare di scrivere una prefazione al Pinocchio di Vallardi. Ed era che lo scrittore, destinato a trovarsi al centro dell’attenzione di una serie di pruriginose, ottuse polemiche proprio in quel 1963 con lo splendido romanzo “Un amore”, si era lasciato conquistare dalle tavole disegnate apposta per la nuova edizione del capolavoro di Carlo Collodi. Perché trovava nella reinvenzione del personaggio, operata dall’artista milanese Alberto Longoni, che aveva conosciuto da vicino l’orrore dei lager nazisti, un intelligente tentativo di togliere la polvere e le ragnatele dal burattino di legno.
Buzzati, si sa, ha sempre sostenuto d’essere un pittore imprestato alla letteratura. Sei anni più tardi, nel 1969, avrebbe sfidato l’ira della critica con quell’opera straordinaria a metà tra il fumetto, il romanzo disegnato (oggi si direbbe graphic novel) e la rivisitazione del mito, che è il “Poema a fumetti”. Ma già nel 1963 lanciava segnali dal testo di introduzione al “Pinocchio” di Vallardi che i lettori più attenti avrebbero dovuto cogliere. Indizi che, adesso, ritornano a galla nella splendida, nuova edizione numerata a tiratura limitata di quel libro proposta da Mondadori Electa (pagg. 68, euro 90). Il volume, in formato 30×43, ha la copertina cartonata ed è custodito in una scatola che porta incisa la scritta “Pinocchio” disegnata dallo stesso Longoni.
Buzzati spiegava subito di considerare di fondamentale importanza la figura del disegnatore “nella messa al mondo di un personaggio burattino”. Perché, come lo immagina e lo fissa sulla carta lui, poi continueranno a visualizzarlo anche i lettori. “È una specie di dittatura – ammetteva lo scrittore – a cui la fantasia dei singoli difficilmente riesce a sottrarsi. Per quanto riguarda i connotati, anzi, il pittore che disegna è più importante perfino dell’autore che ha inventato tutto quanto”. Convinto profondamente di quanto andava scrivendo, lo stesso Buzzati, nel mettere mano alla sua “Famosa invasione degli orsi in Sicilia” del 1945 (apparsa poi in volume nel ’58), decise di accompagnare il testo con una serie di disegni firmati da lui stesso. E ancora oggi quel libro riesce a suggestionare la fantasia di altri autori, al punto che Lorenzo Mattotti, uno dei maestri del nostro tempo nell’arte delle matite e dei pennelli, annuncia per quest’anno la sua versione cinematografica con produzione francese de “La fameuse invasion des ours en Sicile”.
Ce n’erano stati altri di Pinocchio illustrati, e Buzzati lo ricordava bene. A dare il volto e il corpo al burattino collodiano ci aveva pensato, per primo, il pittore Mazzanti nel 1883. Ma quella versione grafica era stata presto “migliorata e resa popolare dal Chiostri”. Peccato, però, che già all’inizio del ‘900 si sentisse il desiderio di qualcosa di più moderno, che ripulisse appunto il bambino di legno da quel vecchiume ottocentesco. La “cura di giovinezza” era arrivata, puntuale, da Attilio Mussino: “Stavolta a colori – annotava lo scrittore -: non molto dissimile dai precedenti nei fondamentali connotati, ma più fantasioso. movimentato e brillante. È appunto questo il Pinocchio che conobbi da bambino. E per i ragazzi di parecchie leve consecutive quella incarnazione fece testo”.
Troppo bella la storia inventata da Collodi, troppo avventuroso il personaggio per non pensare dio portarlo al cinema. Infatti, puntuale, era arrivato Walt Disney con la sua versione a cartoni animati che a Buzzati, però, “piacque assai relativamente”. Proprio perché, se è vero che una storia diventata classica nel tempo ha bisogno di essere reinventata con “una bella iniezione di ossigeno e vitamine”, è pur anche vero che rimodellare un personaggio “non vuol dire necessariamente renderlo meccanico e arido”.
Proprio per questo Buzzati trovava le tavole di Longoni perfette per rilanciare Pinocchio negli anni Sessanta. Perché con il suo stile minuto, calligrafico e insistito, aveva saputo stilizzare il burattino rendendolo “un po’ meno simile all’uomo”, ma facendolo diventare al tempo stesso più umano. E, a quel punto, lo scrittore si lasciava andare a uno sfogo sincero e apprezzabile: “Mi pare che adesso si possa volergli bene sul serio. Adesso Pinocchio fa tenerezza, mentre prima, diciamo la verità, aveva un muso piuttosto da lazzarone (e a me personalmente riusciva spesso antipatico)”.
Ragionamento perfettamente in linea con lo stile di vita di Buzzati, ma anche con il suo modo di vedere la letteratura. Come poteva amare un burattino indisciplinato che si lascia turlupinare dal Gatto e la Volpe, sedurre da un tipaccio come Lucignolo? Uno che, dopo aver irriso gli ammonimenti del Grillo Parlante, sapeva soltanto frignare per ottenere il perdono della Fata Turchina? No, lo scrittore che aveva ideato il tenente Giovanni Drogo, il “doverista” spedito a fronteggiare i Tartari nella Fortezza Bastiani, l’uomo tutto d’un pezzo capace di lasciare la prima linea soltanto per combattere la sua battaglia finale con la Morte, non poteva che vedere in quel pezzo di legno animato la proiezione dei troppi furbetti all’italiana.
Guardando il Pinocchio di Longoni, si può capire che cosa trovasse di bello Buzzati in lui. Era l’inquieto confrontarsi con il suo essere “altro”, l’oscuro convivere con un destino incerto, modellato secondo regole imperscrutabili. Il dover affrontare una trasformazione, dal legno alla carne, che non può non contenere incertezza, angoscia, dolore. Un grandissimo mistero.
<Alessandro Mezzena Lona