Non è un americano arrabbiato con Donald Trump e il suo fascismo qualunquista. E al “Giustiziere della notte” preferisce di gran lunga “Fargo” dei fratelli Joel e Ethan Coen. E, se ancora non bastasse, Martin McDonagh arriva dalla Gran Bretagna, ha origini irlandesi, una carriera teatrale alle spalle e un lungometraggio di debutto che ha conquistato subito la critica ambientato a Bruges, in Belgio: “La coscienza dell’assassino”. Ma allora, com’è possibile che un regista così decida di ambientare il suo nuovo film in un’America dove il passato razzista, antifemminista, isolazionista non passa mai?
Per capirlo bisogna guardare attentamente il suo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”. Un film che ha portato a casa premi pesanti nella recente notte dei Golden Globes: Miglior sceneggiatura, firmata dallo stesso Martin McDonagh; Miglior attrice protagonista l’intensissima Frances McDormand nei panni di Mildred Hayes (lei, che nella vita reale è moglie di Joel Coen); Miglior attore non protagonista Sam Rockwell (lo psicopatico agente Jason Dixon), pur non riuscendo ad aggiudicarsi i premi per il miglior film e la regia. Adesso, c’è da scommettere che farà incetta di nomination anche agli Oscar, con il sogno di vivere in maniera trionfale la notte in cui si assegnano le ambitissime statuette d’oro.
È un Missouri livido e realissimo, quello che il film racconta, anche se Ebbing è solo una cittadina immaginaria. Presa a simbolo dell’America che ancora odia i “negri”, che tollera le donne solo se restano chiuse in casa, che concepisce i rapporti sociali in presenza di tonnellate di alcol e chiacchiere razziste in libertà. Proprio lì, in quello che sembra il paradiso terrestre dei suprematisti bianchi, una mamma, Mildred Hayes, decide di rompere gli schemi. Di sfidare a muso duro l’intera comunità. Scoperto, per caso, che tre enormi tabelloni pubblicitari non vengono più affittati da tempo, anche perché sono stati mestamente dimenticati su una strada secondaria, decide di pagarli lei per lanciare messaggi inquietanti. In cui accusa la polizia, e neanche troppo velatamente l’intera comunità, di non aver mosso un dito per scoprire chi ha violentato e ammazzato sua figlia Angela.
I messaggi che fa stampare in nero su sfondo rosso, a caratteri cubitali, colpiscono come altrettanti pugni nello stomaco la gente di Ebbing. Dicono: “Stuprata mentre stava morendo”, “E ancora nessun arresto”, “Come mai, sceriffo Willoughby?”. Normale che Mildred, e suo figlio Robbie di conseguenza, diventino il bersaglio delle critiche, delle pressioni della polizia e di tutta la cittadina. Soprattutto dopo che la madre di Angela viene intervistata, davanti ai tre gigantescxhi manifesti, dalla giornalista di una televisione locale. Lo sceriffo, che sta lottando in silenzio con il cancro, decise di scegliere la via della persuasione, della conciliazione. Fino a quando si spara un colpo di rivoltella in testa, più per non finire prigioniero della malattia che per il tormento di quella imprevista, clamorosa contestazione nei confronti del suo operato.
Chi invece non sa resistere alla voglia di menare un po’ le mani è l’agente Sam Rockwell. In tipaccio sempre alterato dall’alcol, che ha già riempito di botte un uomo di colore, che si fa comandare a bacchetta dall’anziana madre, ma che soprattutto non accetta l’idea di essere messo in scacco da una donna. Una come Mildred, che lo tratta come un bambino cretino. E allora che fa? Semplice, decide di risolvere la questione alla radice. Si presenta nella sede dell’agenzia che ha concesso a Mildred in affitto i tre manifesti e lo fa volare dalla finestra.
Ma la rabbia genera solamente rabbia. E il regista non vuole costruire una nuova parabola sul cittadino che si fa arrangia da solo per trovare soddisfazione al proprio dolore. Così, piano piano, il destino di Mildred e dell’agente Rockwell muta sotto gli occhi dello spettatore. Si trasforma fino a fare in modo che le loro strade si incrocino, si intersechino, non siano più in rotta di collisione. E allora, toccherà a questi due improbabili alleati decidere se è giusto cancellare la morte di Angela scavalcando la polizia indolente, entrando in azione nel ruolo di giustizieri privati. Oppure lasciare che la vita faccio il proprio corso. Senza sporcarsi le mani di sangue.
Potente dal punto di vista emotivo, costruito come una spirale di dolore e rancore dalla quale è difficile uscire, “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” sa stemperare i toni più duri, taglienti della storia facendo ricorso a una massiccia dose di ironia. Così, il ferocissimo agente Rockwell finisce per assomigliare a un colosso dai piedi d’argilla. Tiranneggiato dalla madre, licenziato dal nuovo sceriffo, un afroamericano che non è disposto a fare sconti a nessuno, sarà disposto a cambiare vita solo dopo aver guardato negli occhi la Morte. E il violento merito di Mildred, che l’ha abbandonata a gestire la tragedia della morte violenta di Angela per correre dietro a una ragazzetta, si ritrova a dover gestire un rapporto di coppia che sembra preso di peso da una scadente soap opera.
In un’America che non vuol fermaere fermare il proliferare delle armi tra i suoi cittadini, la storia di Mildred non chiude il cerchio. Non fornisce un finale consolatorio. Resta sospesa, trattiene il fiato. Regalando a “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” un messaggio ancor più forte. Perché, fatti i conti, è solo la ragione che può fermare l’insensata furia di una pur giusta indignazione.
<Alessandro Mezzena Lona