• 18/03/2018

Ian Manook: “La mia scrittura è una sfida”

Ian Manook: “La mia scrittura è una sfida”

Ian Manook: “La mia scrittura è una sfida” 1024 716 alemezlo
La pagina bianca non gli ha mai fatto paura. E se deve scegliere un luogo dove mettere mano alle sue storie, preferisce evitare quelle stanze silenziose, quei vuoti di suono che fanno la felicità di tanti scrittori. Perché Ian Manook dà il meglio di sé quando tutto attorno regna il caos. I romanzi della trilogia di Yeruldelgger, l’amato e incorruttibile poliziotto che si muove nella Mongolia degli sciamani e dei nomadi, è nato negli uffici dell’agenzia pubblicitaria creata dall’autore francese: “Mentre lavoravo, una parte dello schermo era impegnata dalle incombenze quotidiane, l’altra si muoveva sulle tracce del mio detective tra la steppa e il Deserto dei Gobi”.

E poi, Ian Manook, che in realtà si chiama Patrick Manoukian ed è nato a Meudon, in Francia, da una famiglia di origini armene, non ama nemmeno recitare la parte dello scrittore ossessionato dalla pagina bianca. Perché è capace di lavorare a più manoscritti contemporaneamente. Mentre ne completa uno, sta già pensando a come portare avanti un’altro. Se gli si chiede, ad esempio, quando tornerà a occuparsi del suo Yeruldelgger, visto che l’ultima parte della trilogia mette una pietra tombale sul personaggio, risponde senza pensarci sopra: “Mai, non ho tempo per farlo. Devo scrivere altre storie, non sono più giovanissimo. E allora, considero quell’esperienza chiusa”.

Normale che i suoi lettori si sentano orfani, già da adesso, di un personaggio affascinante e riuscitissimo come Yeruldelgger. Burbero, onesto, incapace di fare sconti a chiunque, riservato eppure amatissimo dalle donne, il commissario di Ulan Bator è ritornato da poco più di un mese nelle librerie con la sua terza avventura: “La morte nomade”, tradotta da Maurizio Ferrara per Fazi Editore (pagg. 413, euro 18,50). Un romanzo teso, nero, che non cala di ritmo nemmeno per poche pagine, dove il commissario, lasciata la Polizia, prova a sintonizzarsi con la tradizione dei suoi antenati piantando la yurta negli immensi spazi del Deserto dei Gobi. Ma viene inseguito anche lì dall’ombra oscura di una serie di delitti, compiuti secondo un antico rituale. di cui dovrà occuparsi. Circondato da una serie di bizzarri e riusciti personaggi, come già accadeva in “Morte nella steppa” e “Tempi selvaggi”

“Ho cominciato a scrivere molto presto, quando avevo 15 anni – spiega Ian Manook, invitato a Roma nell’ambito del Festival Libri Come, che è approdato alla nona edizione all’Auditorium Parco della Musica con la cura di Marino Sinibaldi, Michele De Mieri e Rosa Polacco -, ma sono arrivato tardi a pubblicare i miei libri. Il primo capitolo della trilogia di Yeruldelgger è uscito in Francia nel 2013, quando avevo 64 anni. Però da ragazzino mi misuravo già con la struttura del romanzo, arrivavo anche a mettere assieme storie lunghe cento pagine”.

Prima di arrivare al romanzo ha fatto molte altre cose?

“Certo, ho viaggiato tanto. E poi mi sono messo a collaborare con i giornali, con le riviste di viaggio. Nel 1987 ho creato un’agenzia pubblicitaria specializzata che si chiamava Manook e si occupava di comunicazione nel campo del turismo”.

Perché tornare, poi, al romanzo?

“In realtà, non ho mai smesso di scrivere. Ma quello che mi ha portato a diventare un narratore pubblicato è stata una sfida con mia figlia. Con lei ho scommesso che sarei riuscito a finire un romanzo e a farlo arrivare in libreria. In realtà, poi, la cosa era molto più complicata”.

Cioè?

“La sfida era di riuscire a scrivere e pubblicare due libri all’anno, sempre di genere diverso e con pseudonimi differenti. Tutto questo accadeva nel 2009. L’anno dopo mi sono messo a elaborare la prima storia, poi sono arrivate le altre”

Perché h scelto Manook come pseudonimo?

“Così ho sempre sentito chiamare mio papà. Il nostro cognome armeno Manoukian veniva modificato. Quando andava in fabbrica, quando giocava a calcio, lo chiamavano Manook. Ma io stesso, ai tempi della scuola, mi sono portato dietro quel soprannome. Ed è stato normale usarlo prima per l’agenzia e poi per firmare i libri. Per altri romanzi, invece, ho inventato pseudonimi diversi”.

La Mongolia, terra misteriosa e affascinante: perché ha scelto di ambientare lì la trilogia di Yeruldelgger?

“La mia figlia più giovane, quella che mi ha sfidato a scrivere, da 15 anni si occupa di un ragazzo della Mongolia. Gli manda ogni mese dei soldi, segue il suo percorso. Un giorno, in tivù, ha visto un servizio che cercava di capire come venivano usati i fondi internazionali destinati a quella terra. E ha pensato che fosse giusto andare a verificare di persona. Così siamo partiti, e durante il viaggio mi sono innamorato della Mongolia”.

E il suo incorruttibile commissario da dove arriva?

“La sfida più grande è stata quella di capire i meccanismi del giallo. Perché non conoscevo bene il genere, non sono mai stato un lettore accanito di thriller. Così, mi sono messo a riguardare certe vecchie cose che scrivevo. Lì ho trovato un personaggio interessante: un poliziotto di New York, che si muove nella zona di Brooklyn, di origine italiana. Si chiamava Donelli, si è trasformato in Yeruldelgger. Perché proprio in Mongolia? Semplice, mi affascinava quel mondo in cui è ancora presente la cultura sciamanica”.

Un mondo che sta cambiando tantissimo?

“Tutto il mondo sta cambiando con la globalizzazione. Anche la Mongolia dei nomadi e degli sciamani sembra aver venduto l’anima al diavolo, come racconto nei miei libri. Ma è normale: difficile resistere al potere dei soldi”.

Il prossimo libro sarà ambientato in Brasile?

“Esattamente nel Mato Grossa. Anzi, nella parte sud di quella splendida terra. Ho immaginato una vendetta che si consuma quarant’anni dopo tra due uomini in un contesto molto cupo, anche se tutto attorno c’è un ambiente naturale lussureggiante. Fantastico. Uscirà in autunno sempre per Fazi”.

Poi arriverà un’altra trilogia?

“A maggio uscirà in Francio il primo volume di tre thriller di ambientazione americana. Si parte dalla zona dei Monti Appalachi, per trasferirsi poi in Alaska e in Louisiana”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

[contact-form-7 404 "Not Found"]