• 13/05/2018

Eric Emmanuel Schmitt: “Il perdono? A volte è vendetta e condanna”

Eric Emmanuel Schmitt: “Il perdono? A volte è vendetta e condanna”

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Non c’è nulla di più nobile, liberatorio del perdono. Tanto che il cristianesimo ne ha fatto il suo centro di gravità. La sua provocazione più forte. Ma è sempre con il cuore limpido che la vittima assolve il carnefice? Oppure spesso lo scaricare un criminale del peso della colpa, in realtà, lo trascina inesorabilmente verso un inferno da cui non potrà più scappare. Visto che non c’è peggior cosa del prendere coscienza delle proprie malefatte. Non c’è incubo più invincibile di guardare negli occhi chi ha sofferto per causa nostra.

E proprio “La vendetta del perdono” è il titolo del nuovo libro di Eric Emmanuel Schmitt. Quattro racconti, tradotti da Alberto Bracci Testasecca per le Edizioni e/o (pagg. 253, euro 18) che lo scrittore di Sainte-Foy-lès-Lyon ha voluto dedicare proprio all’ambiguità di un gesto nobilissimo. Andando a scavare dentro le vite dei suoi personaggi con la sensibilità, la bravura e l’implacabile decisione che i lettori dei suoi libri più amati (da “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” a “Il lottatore di sumo che non diventava grosso”, da “Quando ero un’opera d’arte” a “La parte dell’altro”) conoscono bene.

Così, nel racconto “Le sorelle Barbarin” la buonissima Lily decide di perdonare alla gemella Mosetta la sua inguaribile invidia, esercitata sempre con subdola intelligenza. Ma poi rivela, lei per prima, di avere un cuore di tenebra. In “Madamina Butterfly”, Mandine decide di scaricare William dalla colpa di averla sedotta e abbandonata. Ma in realtà lo crocifigge all’obbligo di fare un giorno un gesto clamoroso di riparazione. Ne “La vendetta del perdono”, mamma Élise perdona Sam Louis di vere violentato e ucciso sua figlia, ma lo trascina nell’inferno della presa di coscienza dei suoi crimini. Infine, in “Disegnami un aereo”, l’ex aviatore nazista Werner von Breslau capisce di dover espiare le sue colpe di guerra quando scopre di aver eliminato una persona che ammirava molto.

Ospite del Salone del Libro 2018 al Lingotto di Torino, Eric Emmanuel Schmitt chiarisce subito che la sua voglia di esplorare il lato buio del perdono non nasce soltanto dalla voglia di analizzare, senza remore, uno dei punti di forza della religione cristiana.

“Non credo che il perdono appartenga alla religione, non credo sia un territorio riservato a chi crede nel cristianesimo – dice Eric Emmanuel Schmitt -. Oggi, sono convinto che questo concetto faccia parte della nostra vita quotidiana. Ogni giorno ci troviamo a dover fronteggiare prepotenze, malvagità, violenze. E ci chiediamo se sia giusto perdonare o meno. Quindi, diventa una scelta che riguarda da vicino l’uomo, che creda o che non creda”.

Però è vero che a parlare di perdono sono solo gli uomini di fede?

“Questo è il paradosso del nostro tempo. Il perdono dovrebbe essere rivendicato dal mondo laico. E, invece, è ancora argomento di dibattito religioso. Proprio per questo ho voluto scrivere quattro racconti per analizzare i diversi volti, e le ambiguità, del perdono nella vita reale”.

Quattro racconti che sono punti cardinali, negativi e positivi, del nostro presente?

“Quello che amo dei racconti, rispetto ai romanzi, è che permettono di mettere a fuoco aspetti diversi del nostro vivere. C’è il perdono assoluto, quello venato di ambiguità, perfino quello che si trasforma in una sorta di vendetta. E poi, nell’ultimo racconto ‘Disegnami una storia’, c’è addirittura la volontà di autoassolversi dell’aviatore nazista per gli errori fatti in passato. Soprattutto quando si rende conto di avere ammazzato uno degli sautori che amava di più. Ma non in un’azione anonima di guerra, bensì dando un volto, un nome alla vittima”.

L’inferno non è vivere, ma rendersi conto vivendo dei propri errori?

“L’inferno è la propria coscienza. Per questo Élise, quando decide di perdonare il serial killer Sam Louis per avere violentato e ucciso sua figlia, gli dice: ‘Benvenuto all’inferno’. Perché lui, prima, non sapeva nemmeno il nome delle sue vittime. Erano numeri. Ma quando chi ha ucciso scopre la storia della sua vittima, si rende conto che dietro l’anonimato c’è un mondo di sogni, desideri, illusioni, speranze, allora comincia a prendere forma il dolore. La coscienza del crimine”.

Lei è partito dal teatro. Quel tipo di scrittura l’ha aiutata, poi, nel suo percorso di narratore?

“I racconti sono la sintesi del lavoro di scrittura fatto per il teatro, ma anche per i romanzi. Il primo mi ha insegnato a dire l’essenziale, a essere breve, sintetico, a inquadrare la storia senza concedermi sbavature. Spesso i grandi autori teatrali diventano anche ottimi scrittori. Sto pensando a Luigi Pirandello, a Anton Čechov. Perché sono abituati a prendere lo spettatore, e quindi il lettore poi, e tirarlo dentro nella storia. Coinvolgendolo totalmente”.

Il romanzo, però, non viene digerito in un tempo limitato come lo spettacolo teatrale…

“Infatti il romanzo ha a disposizione un tempo dilatato. E quindi può analizzare, approfondire. Quello della novella è un percorso che sta a metà tra i mondi del teatro e del romanzo. Lì il tempo si comprime, si restringe. E, allora, devi essere molto bravo a coinvolgere il lettore con la forza del teatrante e la fascinazione affabulatoria del romanziere”.

Il successo è arrivato presto per lei: “Odette Toulemonde”, “Piccoli crimini coniugali”. Scrivere dopo tanto clamore è più difficile?

“È indubbio che il successo ti dà una grande carica. Ogni volta che scrivi un libro nuovo, hai la sensazione che i tuoi lettori lo stiano aspettando. E poi ti libera dalla cosa più tremenda, che è l’attesa del successo stesso. Però è anche vero che, ogni volta, ti coglie l’ansia di deludere qualcuno”.

Qualcuno dei suoi libri l’ha delusa?

“No, li rivendico tutti. Però considero alcuni dei miei libri come trampolino di lancio per altri, più compiuti, che ho scritto dopo”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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