• 05/08/2018

Francesco Targhetta: “Scrivo perché mio padre non lo sa fare”

Francesco Targhetta: “Scrivo perché mio padre non lo sa fare”

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Quando pensa al suo essere scrittore, Francesco Targhetta sorride. Perché sa che il mondo della poesia, dei romanzi, è l’unico territorio in cui suo padre non sarebbe mai riuscito a eccellere. Dal momento che il suo papà operaio è bravissimo nell’aggiustare tutto quello che gli capita a tiro, dal tubo che gocciola a qualsiasi strumento elettronico in tilt. E se non bastasse, sa darsi da fare con le mani dividendosi, nel tempo libero, anche tra il giardinaggio e l’apicultura,

Lui, Francesco Targhetta, il figlio che ha fatto il Liceo classico, che si è laureato in Lettere a Padova, che di professione fa l’insegnante, in pochi anni è riuscito a emergere anche nel mondo della letteratura. Prima come poeta, scrivendo nel 2012 l’acclamato romanzo in versi “Poiché veniamo bene nelle fotografie”. Poi come narratore, centrando subito l’ingresso nella cinquina dei finalisti del Premio Campiello con il suo primo libro di narrativa “Le vite potenziali” (Mondadori, pagg. 245, euro 19). Un testo che, la sera di sabato 15 settembre al Teatro La Fenice di Venezia, si giocherà tutti i suoi assi per la vittoria.

E non sono pochi. Visto che Francesco Targhetta, con un romanzo intelligente e bello come “Le vite potenziali”, ha saputo riportare all’attenzione dei critici e dei lettori quello che nel ‘900 veniva definito il romanzo industriale. Lo scrittore nato a Treviso, che nel 2014 ha vinto con la raccolta “Le cose sono due” il Premio Ciampi Valigie Rosse, infatti ha voluto ambientare la sua storia nel mondo dell’informatica, dell’e-commerce. E proprio lì, nella sede di Marghera dell’Albecom, prendono forma le vite di tre uomini apparentemente in grande sintonia. Eppure diversissimi tra loro, non solo nella gestione del lavoro, ma anche nell’affrontare i percorsi della vita. L’intrecciarsi di giornate da condividere con i colleghi, il complesso e quotidiano confronto con il mondo femminile, il difficile alternarsi di odio e amore per il loro territorio davanti all’incombere di un’Europa, di un mondo sempre più interconnesso. Omogeneizzato, normalizzato.

Il pragmatico e altruista Alberto, l’introverso Luciano che preferisce vivere nella penombra, il rampante Giorgio che sembra percorso da un brivido di elettricità sempre, si troveranno a dover affrontare la realtà muso duro. Perché la vita presenterà loro il conto con una serie di scelte, di tradimenti, di aggiustamenti necessari e dolorosi.

“Credo che la voglia di scrivere in prosa sia sempre stata dentro di me – spiega Francesco Targhetta -. Anche quando ho iniziato a mettere assieme i primi versi, e poi ho pubblicato la raccolta ‘Fiaschi’. Era poesia narrativa. Uno dei miei modelli di riferimento molto alti è sempre stato Guido Gozzano”.

Quello del “ciarpame reietto, così caro alla mia Musa”?

“È lui il poeta narrativo per eccellenza. Del resto, il mio romanzo in versi ‘Perché veniamo bene nelle fotografie” assecondava questa mia visione della scrittura. Da un lato, il modo di esprimersi più naturale per me che è quello in versi. Dall’altro, c’è il desiderio di raccontare. Per questo, arrivare al romanzo è stato un obiettivo logico. Ovviamente, ho dovuto lavorare molto per imparare a padroneggiare un registro linguistico come quello della prosa a cui non ero abituato”.

C’è voluto tanto coraggio a scrivere un romanzo in versi?

“No, per me è stato molto più ardito pensare a un romanzo in prosa. E poi, non ero mica il primo a percorrere quella strada, anche se molti critici e lettori si complimentavano per l’idea così nuova, originale. Non a caso, un altro dei miei punti di riferimento è sempre stato Elio Pagliarani, il poeta e critico teatrale morto nel 2012”.

“Le vite potenziali” entra nel mondo del lavoro con grande fantasia e precisione…

“Uno dei motivi per cui ho deciso di raccontare questa storia è legata a motivi antropologici, ma anche geografici. Sono nato e vivo in Veneto, dove il tema del lavoro è sempre stato al centro della vita delle persone. Tanto più per uno come me, figlio di un operaio, che ha scelto di studiare e occuparsi di letteratura. Ho fatto il Liceo classico, poi ho studiato Lettere all’Università di Padova. E ho sempre sentito molto forte  su di me la pressione di chi diceva: non troverai mai lavoro. Sono cresciuto con questo mantra che mi seguiva. Lo ripetevano perfino i miei professori”.

E l’altro motivo?

“Ho sempre amato la letteratura industriale. Non smetto di leggere, ancora oggi, i romanzi che raccontano il mondo del lavoro, come i recenti ‘Works’ di Vitaliano Trevisan e “Ipotesi di una sconfitta’ di Giorgio Falco. Quindi, mettere al centro del mio libro la Albecom, un’azienda del settore informatico che ha sede a Marghera, è stata una scelta naturale”.

Difficile entrare nella selva oscura dell’e-commerce, di cui si occupano i protagonisti del romanzo?

“Non è stato semplice. Ci è voluto tempo e l’aiuto di persone che lavorano nel mondo dell’informatica. Mi hanno accompagnato con pazienza per capire come funziona. Spiegandomi il linguaggio, le dinamiche, le strategie. All’inizio, quando un mio caro amico provava a dirmi di che cosa si occupasse,  la testa si riempiva di punti interrogativi. Agli altri mi limitavo a dire che era un consulente informatico, evitando di entrare nei dettagli. Per scrivere, ho dovuto chiarire prima di tutto questi dubbi dentro di me. E sono stato fortunato a trovare persone con un’attitudine pedagogica notevole, animate anche da un forte desiderio di essere raccontate”.

Alberto, Luciano e Giorgio: tre prototipi di maschio contemporaneo. Come sono nati?

“Frequentando alcune persone a cui mi sono ispirato. Anche se alcune di loro le conosco poco, per cui la realtà ha dato spunti minimi nella costruzione dei personaggi. Il resto l’ha fatto la fantasia. Volevo tre tipi molto diversi tra loro. Il nerd classico, che è Luciano. Il più spregiudicato Giorgio, su cui ho lavorato moltissimo divertendomi a immaginarlo, perché lo sento molto distante da me. E poi, il razionale, progressista Alberto, che assomiglia di più al mio amico”.

Il tema della difficoltà nei rapporto tra uomo e donna è ben più di una sottotrama, nel libro…

“È un tema forte proprio perché mi sembrava, quando stavo scrivendo il romanzo, poco rappresentato nella narrativa contemporanea. Trovo interessante raccontare le persone escluse dall’amore. Che provano un sentimento sempre asimmetrico e mai ricambiato. L’unico riferimento letterario forte che avevo in mente era ‘Estensione del dominio della lotta? di Michel Houellebecq, ambientato proprio nel mondo degli informatici. Però risale al 1994, anche se in Italia è uscito nel 2001. Come dire che, da allora, sono cambiate tante cose. E non penso che la tecnologia abbia semplificato la vita di chi lavora in questo settore. Anzi, il senso di solitudine si è ulteriormente ampliato”.

Perché?

“Il fatto di essere sempre connessi, di conoscere ogni giorno persone nuove, anche se in maniera soltanto virtuale, mette una grande pressione al nostro modo di rapportarci con l’altro sesso. E chi rimane sempre e comunque escluso dall’amore finisce per sentirsi terribilmente solo. Molto più di venti, trent’anni fa”.

L’amore per la scrittura, un colpo di fulmine adolescenziale?

“Scrivo da sempre. Alle medie già cominciavo a elaborare testi creativi, molto personali. Chissà perché ho scelto di seguire questa via? Con una battuta potrei dire: mi sono impossessato dell’unica cosa che mio padre non sa fare. Lui è uno di quelli molto pratici, rimette a posto tutto: dal tubo che si rompe a un oggetto elettronico che non funziona più. Fa il giardiniere, l’apicultore. Cosa mi restava? Scrivere, inventare storie. Per essere migliore di lui, almeno in una cosa. Anche perché un figlio dovrebbe crescere trovando una propria traiettoria. Non risultare una copia sbiadita dei genitori”.

Lei che fa il professore che opinione ha dei criticatissimi ragazzi d’oggi?

“Ho un’opinione molto positiva. Nel senso che i ragazzi d’oggi assomigliano molto a noi, a come eravamo. Anche se è facile criticarli in base a comodi clichè. Sanno molte cose, forse sono ben più inseriti nella realtà di chi li bombarda di rimproveri e consigli. Certo, il loro problema più evidente è la difficoltà che provano nel concentrarsi. Si annoiano molto facilmente e tocca a noi insegnanti cercare di catturare il loro interesse”.

Entrare in finale al Campiello con il romanzo di debutto: è più grande la gioia e la paura che dal prossimo libro tutti la aspetteranno con il fucile puntato?

“Più grande la gioia. Anche perché il romanzo, grazie al Campiello, ha ottenuto una visibilità straordinaria. Non sono preoccupato per il mio futuro di scrittore. Mai ho provato il terrore della pagina bianca. E poi, lavoro con la consapevolezza che io, un mestiere che mi piace ce l’ho già: insegno. Quindi la scrittura potrà accompagnare la mia vita con lentezza. Senza ansia”.

C’è già una nuova idea di romanzo?

“Sì c’è, ma la svilupperò con grande calma”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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