• 06/08/2018

Ermanno Cavazzoni: “Verrà l’apocalisse, ma sarà assai buffa”

Ermanno Cavazzoni: “Verrà l’apocalisse, ma sarà assai buffa”

Ermanno Cavazzoni: “Verrà l’apocalisse, ma sarà assai buffa” 1024 683 alemezlo
Portare un romanzo di fantascienza al Premio Campiello. Una sfida quasi impossibile. Se poi quel libro, ambientato in un futuro immaginario, entra addirittura nella cinquina dei finalisti, allora si può già parlare di una mezza vittoria. Anche se Ermanno Cavazzoni poi, nella serata finale di sabato 15 settembre al Teatro La Fenice di Venezia, non dovesse risultare vincitore assoluto. Incassando più voti degli altri dai 300 lettori della giuria popolare.

Mai un romanzo come “La galassia dei dementi” (La nave di Teseo, pagg. 666, euro 24) era riuscito a farsi largo nella selva dei tantissimi libri selezionato per il Premio. E non si può certo dire che Ermanno Cavazzoni, che insegna Poetica e retorica all’Università di Bologna e ha esordito da scrittore negli anni ’80, sia entrato in finale solo sull’onda della fama degli ottimi libri da lui pubblicati. Tra cui quel “Poema dei lunatici”, uscito per Bollati Boreinghieri nel 1987, che lo ha portato poi a collaborare alla sceneggiatura dell’ultimo film di Federico Fellini: “La voce della luna”. No, il fatto è che la Giuria dei letterati del Campiello, presieduta quest’anno dal giudice Carlo Nordio, si è lasciata letteralmente ipnotizzare da una storia originale e coraggiosa come quella raccontata con fluviale felicità dallo scrittore di Reggio Emilia.

In un futuro non identificato, in una terra che assomiglia al Far West, ma che in realtà è un luogo disperso tra l’Emilia e la Romagna, un’invasione aliena provoca la Grande Devastazione. Lasciando dietro a sé pochi umani sopravvissuti, obesi, schiavi delle proprie manie e del desiderio di non lavorare, accanto a una pletora di macchine, di droidi che governano, gestiscono e organizzano la non facile situazione.

La grande forza del romanzo di Cavazzoni è che non assume mai i toni della profezia, della parabola ispirata da intenti moraleggianti, del monito lanciato alla Terra sulle possibili catastrofi prossime venture. Piuttosto, “La galassia dei dementi” si rivela un inquieto e buffo affresco di quello che potrebbe essere il nostro domani. Tra insetti giganti e robot leggendari, collezionisti di vecchie cianfrusaglie e cyborg cda compagnia che portano in sé anche funzioni di accompagnatori erotici. Ma che, in realtà, sognano una vita tranquilla. Lontana dallo sconquasso e dal caos che sembra ormai in grado di governare l’intero universo.

“Ho sempre avuto una grande passione per la fantascienza – dice Ermanno Cavazzoni -. Mi piacciono i romanzi, soprattutto quelli americani, ma anche tanti film. E poi, questa volta, volevo scrivere proprio un libro di genere. E non mi restavano grandi scelte, visto che per il poliziesco non sono portato. E poi non ho nemmeno predilezione per i gialli. Quindi, restava solo la science fiction. Sentivo di poter raccontare una storia così, anche se non sarebbe stato facile”.

È uscito un romanzo di fantascienza fuori rotta?

“Sì, è una fantascienza un po’ buffa. Di certo, molto diversa da quella a cui ci hanno abituato gli autori americani. Lì c’è quasi sempre un salvatore dell’umanità, un pianeta difeso dalle invasioni aliene in maniera vittoriosa. A me, invece, è venuto più naturale scherzare con il genere”.

Ha scelto di andare controcorrente rispetto agli autori amati?

“Amo e ammiro moltissimo scrittori come Isaac Asimov, Philip K. Dick. Pur non essendo uno di quei lettori che sanno tutto del genere. Mi sono limitato ai classici. E posso dire che, quando ho iniziato a scrivere ‘La galassia dei dementi’, ero tentato di ambientare il romanzo da qualche parte in America. Poi, mi è sembrato meglio provare a immaginare un posto non ben definito della Terra. Ma non funzionavano né l’una né l’altra soluzione”.

E allora è tornato a casa?

“Non potevo scegliere un’ambientazione falsa. Del tutto inadatta a me. Sonomolto legato al modo di raccontare della commedia cinematografica italiana. Quella che ha sfornato ottimi film dagli anni ’60 agli ’80. Per questo, la mia fantascienza ha ben presenta la comicità di un grande attore come Alberto Sordi. Di tante pellicole interpretate da lui. E siccome scegliere, per una storia come quella della ‘Galassia’, proprio un posto tra l’Emilia e la Romagna è già di per sé una scelta strana, buffa, l’effetto comico è stato inevitabile”?

Carlo Fruttero e Franco Lucentini sostenevano che fosse impossibile immaginare un disco volante nella Pianura Padana…

“È vero, perché noi pensiamo il futuro in inglese. Siamo condizionati da anni di romanzi e film americani. E allora, immaginare una storia futuribile nella nostra piccola provincia assume il sapore della commedia. Del comico”.

Agli uomini del suoi libro non sorride un futuro facile, anzi. Però lei non assume mai il tono del moralista, del profeta di catastrofi. Perché?

“Non volevo scrivere una minaccia in forma di romanzo per indurre gli uomini a migliorare. La sensazione che tutto decade, e poi crolla, viene con l’avanzare dell’età. Invecchiando ci si accorge che le cose si sono guastate. Sensazione che, ovviamente, non provano i ventenni. Quello che sto dicendo lo possiamo trovare in autore immortali come Cicerone. Il problema è che, in realtà, gli adulti vivono come uno sfacelo certe normali trasformazioni delle cose. Non è la fine, quella che io racconto, ma un’evoluzione verso il cambiamento”.

Fare i pessimisti, allora, non serve?

“Assolutamente no. Perché la Storia ci dimostra che l’uomo si è sempre adattato alle trasformazioni della società, della realtà. Se andiamo a riesaminare l’epoca feudale, quella monarchica, il Rinascimento, assistiamo a una lunga serie di crolli. E oggi continuiamo a pensare ilfuturo come un tempo in cui si compirà la catastrofe. Probabilmente non sarà così”.

Le macchine, l’intelligenza artificiale del suo libro, non sono delle minacce. Voleva differenziarsi da “Terminator”?

“No, mi sono basato su esperienze quotidiane. Molto comuni. La macchina più vicina a noi è l’automobile, che ci fa tirare maledizioni ogni volta che non funziona. E il computer, strumento utilissimo, provoca terribile ansie quando si blocca. Perché si rivela uno strumento ingovernabile per imperscrutabili ragioni. Così, io non ho mai creduto nelle intelligenze artificiali superiori all’uomo. Le vedo, e le ho raccontate, come creature imperfette. Del tutto simili a noi”.

I coniugi Vitosi, sopravvissuti alla catastrofe, sono prigionieri del passato con le loro collezioni di vecchi oggetti?

“Per i coniugi Vitosi, quello che hanno vissuto prima non passerà mai. Gli stessi droidi del libro hanno dentro di loro un pacchetto di informazioni sul passato piuttosto approssimativo, ma che c’è ed è loro utile. Del resto, anche nel nostro tempo si collezionano oggetti venuti da un tempo lontano. Impazza la moda del vintage. E in una società del futuro, dove tutti vedranno realizzato il loro sogno non di lavorare ma di essere pensionati, ci dedicheremo alle nostre manie di collezionisti”.

Quando scrive un libro non sembra interessarsi troppo dei gusti del mercato. È così?

“Siccome ho abbastanza per campare, non mi sforzo mai di guadagnare altri soldi o di vincere premi importanti. Faccio quello che mi piace. Infatti, il momento più bello coincide con la scrittura di un nuovo libro. Perché mi sento libero. Non penso a quante copie venderò, altrimenti farei un altro mestiere. Se rispondessi alle esigenze del mercato mi sentirei uno schiavo”.

Trent’anni fa, con “Il poema dei lunatici”, ha ispirato l’ultimo film di Federico Fellini…

“Fellini era una persona straordinaria. E il periodo in cui ha girato ‘La voce della luna’ lo ricordo come un momento bellissimo. Perché ho potuto conoscerlo da vicino, lavorare insieme a lui. Per me è stato molto meglio che iscrivermi alla più prestigiosa università”.

Da cosa nasce il suo grande amore per il cinema?

“Semplice, lo considero l’espressione artistica che ha saputo coinvolgere e suggestionare di più una grande parte della gente che ha abitato il ‘900. Molto più, ad esempio, della pittura, della scultura e, se vogliamo, anche della letteratura. A volte, chi ama un libro magari si arrabbia con il cinema perché rimane deluso dalla versione filmica. Ma può accadere anche il contrario”.

Si ricorda un caso di film più bello del libro?

“Ne cito uno per tutti: ‘Arancia meccanica’ di Stanley Kubrick. Non che il romanzo di Anthony Burgess fosse brutto, ma il capolavoro del regista nato a New York lo trovo di gran lunga superiore. Lo stesso posso dire di ‘Non è un paese per vecchi’ di Ethan e Joel Coen, che non ha niente da invidiare all’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. Sono altrettanto belli. Credo che la letteratura riceva dal cinema un notevole aiuto”.

Quando si è innamorato della scrittura?

“Da ragazzo qualche poesia mi veniva. Magari per dedicarla alla fidanzatina di cui ero innamorato. Ma ho iniziato a scrivere per davvero attorno ai trent’anni. Ero già all’Università di Bologna, provai a fare dei pezzi critici che imitassero saggi molto dotti. Ma, in realtà, erano inventati. Il mio professore di allora, Luciano Anceschi, li apprezzò molto, aiutandomi a pubblicarli. Ecco, è stato proprio lui a incoraggiarmi nel seguire la strada della finzione narrativa. Così sono diventato scrittore”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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