I pianisti da urlo, quelli davvero immensi, nella storia della musica non si contano più. Basterebbe dire due nomi a caso: Arturo Benedetti Michelangeli e Glenn Gould. Ma, adesso, è meglio cancellare i ricordi del passato. Perché sull’orizzonte del pentagramma si è materializzata una perfomer capace di trascinare l’ascoltatore in un viaggio del tutto originale. Lei si chiama Kelly Moran, vive a New York, ha la faccetta della brava ragazza con un ottimo curriculum scolastico. Dotata di orecchio assoluto, si è iscritta al Conservatorio per studiare pianoforte. E lì si è innamorata di compositori che hanno portato nel mondo delle sette note la genialità di chi ama suonare ascoltando i sussurri della fantasia, rompendo gli schemi, andando controcorrente: John Cage, Steve Reich, Philip Glass.
E sentirsi rifiutata dalla comunità artistica in cui era cresciuta, per le sue idee troppo avanzate, ha spinto Kelly Moran a pigiare il piede sull’acceleratore della voglia di inventare musica nuova. Di suonare seguendo il ritmo fantastico che le pulsava dentro. Così, dopo aver percorso un pezzo di strada assieme allo sperimentale Charlie Looker Ensemble, e aver frequentato a lungo Margaret Leng Tan, che negli ultimi anni della vita di John Cage gli era molto vicina, la pianista newyorchese ha esplorato l’avant-rock dei Voice Coils, la no wave di tante band della Grande Mela. Fino ad allontanarsi dai suoi primi lavori, come “Bloodroot”, per marciare decisa in una sola direzione.: quella di un’ibridazione tra musica d’avanguardia e ambient, tra sperimentazione pura e cantabilità sognante.
L’album nuovo di Kelly Moran che è uscito da poche settimane contiene infatti, già nel titolo, il desiderio di far capire quanto la musica ddella giovane compositrice statunitense vuole prendere dentro di sé tutti i colori della luce, per farli esplodere in un caleidoscopio di suoni iridescenti e pieni di fantasiosa allegria. “Ultraviolet” esce sotto l’ala della Warp Records, una delle etichette più attente alle traiettorie innovative della musica contemporanea. A comporre l’album, da ascoltare e riascoltare per scoprire ogni volta nuovi dettagli, sempre diversi passaggi sonori di rara bellezza, sono sette brani. Quarantacinque minuti che potremmo etichettare, a piacere, alla voce musica classica, oppure elettronica. O considerare, molto semplicemente, un lungo viaggio sperimentale in equilibrio tra la lezione del passato e gli orizzonti che si aprono sul futuro.
Kelly Moran, in tutti e sette i brani, suona un piano preparato. Uno strumento in cui sono stati inseriti degli oggetti tra le corde. A farle compagnia, in questo viaggio che sta in bilico tra le atmosfere oniriche e l’esplosione di energia di una creatività totalmente libera, c’è la tecnologia, per niente algida, di un’appropriata scelta di suoni sintetici, che regalano a “Ultraviolet” profondità e bellezza.
Il fascino grande della sua musica si può percepire fin dalle prime battute di “Autowave”, il brano che apre la sequenza di “Ultraviolet”: una disarmante semplicità, una gioia di suonare che non può sfuggire. Eppure, al tempo stesso, una meditata complessità. Soprattutto nel costruire scale armoniche che si allontanano e si incontrano, si inerpicano fino alle vette più alte del risuonare del piano, e poi planano giù in inquiete reiterazioni della stessa sequenza.
E se “Helix” sembra solo una trasognata stanza di compensazione per prepararsi al viaggio che ci aspetta, sul tappeto volante delle note, “Water music” prima, ma soprattutto “Nereid”, partono verso fondali sonori di siderale complessità. Si imbizzarriscono per proiettare le fantasie pianistiche di Kelly Moran oltre l’orizzonte dei nostri pensieri quotidiani. Esattamente su quel confine dove i sogni si rispecchiano nel mistero dell’infinito. In un equilibrio perfetto tra la lezione della grande musica dell’Occidente e le spirituali suggestioni di quella dell’Oriente.
Quello che conquista, in “Ultraviolet”, è che Kelly Moran non nasconde di avere dei grandi maestri alle spalle. Di Cage, Reich, Glass si è già detto. Ma potremmo aggiungere Brian Eno di “Music for airports”, ma anche del recentissimo “Music for installation”, e poi Wim Mertens, alcune affascinanti sperimentatrici delle sonorità elettroniche come Sarah Davachi, Kali Malone, Caterina Barbieri. E forse un giorno, chissà, tra molti anni, ascoltando pezzi come “In parallel”, “Halogen”, Radian”, qualche musicologo si lascerà andare ad azzardare un’ipotesi che oggi potrebbe sembrare ridondante, eretica. Perché si accorgerà che dischi come “Ultraviolet” rappresentano le “Variazioni Goldberg” degli anni Zero.
<Alessandro Mezzena Lona