• 22/01/2019

Michel Houellebecq, la costruzione del nulla

Michel Houellebecq, la costruzione del nulla

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Mica facile essere Michel Houellebecq. Perché da quando, nel 1998, lo scrittore francese di Réunion ha messo il naso alla finestra del mondo editoriale con un romanzo come “Le particelle elementari”, che ha fatto in fretta a diventare un caso letterario, ogni volta che viene annunciato un suo libro nuovo ci si aspetta che sia sempre più sgradevole. Assolutamente contrario a ogni forma di buonismo. Ruvido fino a provocare disgusto, controcorrente, anarcoide, difficile da inquadrare e spesso anche da digerire. Insomma, dall’autore di “Piattaforma”, “Sottomissione”, “La possibilità di un’isola”, “La carta e il territorio”, non si potrebbe proprio accettare una storia qualunque. Meno che meno, un intreccio anche solo vagamente normale.

Se vogliamo dirla fino in fondo, Michel Houellebecq incarna tutto quello che un buon padre di famiglia non si sognerebbe mai di scrivere. E men che meno di pensare ad altra voce. Il bastardo che ci piace odiare, ma che non possiamo fare a meno di leggere.

E allora lui che fa? Semplice, rispetta le regole. Recita fino in fondo la parte dello scrittore che non ha paura di raccontare un lurido adescamento pedofilo senza mettersi una mano sulla bocca e arrossire per l’indignazione. Veste, senza imbarazzo, i panni di quello che descriverà le donne con uno strafottente pressapochismo maschilista. E perché no, spara bordate contro la politica europeista che ha deriso, avvilito, ingabbiato ogni forma di originalità, di orgoglio regionalista, in base a non si sa quali regole di un vivere comune che dà il mal di stomaco a tantissimi. E che finisce per rivelarsi soltanto lo strumento perfetto per dare strada libera a un consumismo sfrenato, a una globalizzazione miope e del tutto priva di significato. Tanto che, ormai, ogni tipo di sistema, di modello politico, sembra già sbagliato in partenza.,

Così, ogni volta che esce un romanzo nuovo di Michel Houellebecq, molti critici, tanti lettori, corrono a cercare tra le sue pagine le provocazioni più macroscopiche. Avrà dato voce al sovranismo che sta seducendo l’Europa? Si sarà incaricato di spiegare come mai il populismo riesce a fare coriandoli di tutti gli altri manifesti politici? Sarà riuscito a interpretare il malessere profondo degli uomini del terzo millennio, che devono fare i conti con la minaccia concreta di non avere futuro, di correre verso l’estinzione?

Anche “Serotonina”, il nuovo romanzo di Michel Houellebecq tradotto da Vincenzo Vega per La nave di Teseo (pagg. 332, euro 19), è passato al setaccio dei critici e dei lettori esattamente come i libri precedenti dello scrittore francese. Lasciandoli soddisfatti, perché hanno potuto riconoscere tra le pagine le più roboanti provocazioni che lo scrittore francese non si è risparmiato. Dalle invettive contro altri popoli europei che non siano quello francese, in modo particolare olandesi e belgi, al grossolano racconto di storie d’amore dove le donne non fanno mai una gran bella figura (ma nemmeno gli uomini). Dallo sconcerto, che diventa violenza cieca, provocato nei contadini della Francia da una sciocca penalizzazione dei prodotti regionali in nome di una vaga e assurda normativa europea, al senso di spaesamento di fronte a un mondo che non regala più sogni. Ma sa costruire con perfida maestria spaventosi incubi.

La serotonina del titolo è quella sintetizzata da un farmaco di nuova generazione, il Captorix, prescritto al protagonista del romanzo per permettergli di affrontare una crisi depressiva. Florent Claude Labrust, 46 anni, che un posto stabile nella realtà deve ancora trovarlo, ha iniziato a perdere il controllo della propria vita quando ha scoperto che la giovane fidanzata giapponese, Yuzu, si dedica a collezionare rapporti sessuali di gruppo. E non disdegna nemmeno di farsi filmare mentre si intrattiene in evoluzioni molto intimi con bellissimi cani. Impossibile, per il protagonista del libro, non mettersi a scandagliare la propria vita per provare a capire com’è arrivato a quel punto.

Il problema è che il Captorix, come moltissime, potenti medicine antidepressive, “non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo”. Al massimo “aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire, per qualche tempo”. E così Florent Claude deve andare a ritroso nel tempo. Trovare il coraggio di analizzare gli amori che lo hanno portato fino a Yuzu. Riconoscere che probabilmente Camille sarebbe stata la donna giusta per lui, anche se adesso si rifiuta di incontrarla. E progetta addirittura di ammazzare il suo bambino sparando da lontano, senza trovare nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia.

E così la vita di Florent Claude scivola verso una rapida e raggelante volontà di autoesclusione. Una specie di fuga silenziosa da qualunque forma di intervento diretto per provare a cambiare la realtà. Infatti, non parteciperà alla rivolta degli agricoltori francesi, convinto che il suo Paese sia destinato a diventare una specie di parco d’attrazione per ricchissimi cinesi. Fermerà lo schifoso mercimonio di un pedofilo tedesco ma solo per assicurargli, quando si troverà faccia a faccia con lui, che non ha alcuna intenzione di denunciarlo. Finendo per inscenare un balletto in cui il carnefice diventa vittima, e viceversa, sulle note di una borghesissima incapacità di prendere posizione.

Non basta. Labrouste scivolerà verso una devastante indifferenza nei confronti di tutte le ingiustizie, gli errori che lo circondano. Rassegnandosi anche al fatto che il Captorix, dopo un po’, spegne la libido, mette il silenziatore a qualunque desiderio corporale. Ma, in fondo, non è giusto così? Visto che lui, le donne, non le ha mai capite, stimate, apprezzate.

Florent Claude non riuscirà nemmeno a decidere a chi lasciare i soldi depositati in banca, abbandonandosi a un raggelante soliloquio: “Avrei potuto regalare, mostrarmi generoso, ma non chi? I paralitici, i senzatetto, i migranti, i ciechi? Non mi andava di mollare la mia grana a dei rumeni. Nella vita mi era stato regalato poco, e a mia volta avevo poca voglia di regalare; in me la bontà non si era sviluppata, il processo psicologico non era avvenuto, anzi gli umani nel complesso mi erano diventato sempre più indifferenti, per non parlare dei casi di ostilità pura e semplice. Avevo cercato di avvicinarmi a certi umani (e soprattutto certe umane, giacché all’inizio mi attiravano di più, ma di questo ho già parlato), insomma ritenevo di aver fatto un numero di tentativi normale, standard, nella media, ma per vari motivi (citati anch’essi) non si era concretizzato niente, niente mi aveva permesso di credere che avessi un posto per vivere, né un ambito, né un motivo per farlo”.

La corsa al consumo, la perdita di un orizzonte in cui non domini solo l’egoismo, la solitudine di chi non ha mai costruito sogni duraturi, ma si è sempre affidato a desideri interlocutori e vacui, genera l’annichilimento di uomini come Florent Claude. Personaggi che Michel Houellebecq racconta senza prendere posizione, senza trarre conclusioni di tipo moralistico, ideologico, catastrofista. Anche in “Serotonina”, lo scrittore accompagna il suo depresso quarantaseienne verso un finale del tutto in linea con la vita che ha condotto. Perché, già Pier Paolo Pasolini e Thomas Bernhard lo dicevano, la costruzione del nulla lascia dietro di sé soltanto macerie. Senza rimpianti, senza farisaici piagnistei. Solo inutili macerie.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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