Ognuno di noi, nella vita di ogni giorno, si comporta come un traduttore. Prende i fatti di una storia, li decodifica, li interpreta, prova a spiegarli a se stesso e agli altri con parole intelligibili. Legge la realtà facendola uscire dall’oscurità in cui galleggia prima di essere smontata, analizzata e rimontata secondo un significato logico. Enrico Terrinoni, che ha fatto del passaggio di un testo da una lingua a un’altra un’arte sopraffina, non si stanca mai di ripetere che tradurre significa ricreare. Mettere in campo strategie creative. Fare in modo che un romanzo, un racconto, una poesia, escano dall’ombra e riprendano la loro luce in altra forma, rispetto all’originale.
Proprio partendo dalla convinzione che tutto è in noi è traduzione, perché siamo esseri che interpretano in ogni istante quello che vivono e che vedono, Enrico Terrinoni, professore ordinario di Letteratura inglese all’Università per stranieri di Perugia, non ha mai avuto paura di affrontare testi difficili. Considerati spesso impossibili da tradurre. E allora se è apparsa subito entusiasmante la sua idea di mettere mano a una nuova edizione dell’amatissima “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters (Feltrinelli, pagg, 687, euro 13), capace di volare oltre la versione considerata quasi sacra e intoccabile, ma anche ormai datata, di Fernanda Pivano, ancora più coraggioso e elettrizzante è apparso il progetto di rivedere e completare l’edizione del testo impossibile di James Joyce”Finnegans Wake”, iniziata da Luigi Schenoni e ultimata da Enrico Terrinoni stesso insieme a Fabio Pedone (Oscar Mondadori, sei volumi, con un’ottima postfazione di Stefano Bartezzaghi al tomo conclusivo).
Il prezioso lavoro di Enrico Terrinoni, che nel saggio “Oltre abita il silenzio” (il Saggiatore, pagg. 220, euro 24) ha messo a fuoco alcuni concetti fondamentali che ruotano attorno alle infinite possibilità del linguaggio, non poteva passare inosservato agli occhi attenti della giuria del Premio Gregor von Rezzori di Firenze. Che gli ha voluto rendere omaggio, quest’anno a Firenze, assegnandogli proprio il riconoscimento dedicato alla traduzione.
“La traduzione, se vogliamo essere sinceri, è un’attività contraddittoria – spiega Enrico Terrinoni -. Perché viene considerata impossibile, anche se la si fa da sempre. Potremmo definirla possibilmente impossibile, o impossibilmente possibile. Il problema è sempre lo stesso: possiamo prendere un testo e restituirlo nella sua autenticità? Se rispondessimo sì, finiremmo per dire una bugia. Perché è chiaro che un romanzo, un racconto, lo scomponi, lo ricomponi, lo cambi in tutto. Non resta una sola sillaba dell’originale, proprio perché stai usando un’altra lingua. Quindi, diventa un’altra cosa. Se accettiamo, invece, il concetto di trasporto, di portare al di là di me stesso le parole di un altro, come diceva Martin Heidegger, il traduttore diventa una sorta di traghettatore”.
Un moderno Caronte?
“Sì, ma il traduttore è un Caronte al contrario, se vogliamo. Perché porta i morti in vita. Restituisce linfa a un testo che altrimenti, per chi non conosce la lingua usata per scriverlo, resterebbe inerte. Rimane, però, un tabù. Tutti noi, quando leggiamo la traduzione di un testo, ci illudiamo di avere sotto gli occhi l’originale. E, invece, non ci arrendiamo al fatto che quello è un romanzo, un racconto, una poesia, riscritti da chi ci ha messo le mani. Tratti, ovviamente, dall’originale, ma ricreati”.
Potremmo definirli “fatti di nuovo”?
“Sì, anche perché questo termine, fare di nuovo, plasmare, ci porta al verbo greco poiéo. Quindi, alla poesia. Infatti, quando firmo la traduzione di alcuni versi, in pratica li rifaccio. Poi, possiamo discutere se il mio lavoro è valido o meno”,
Il traduttore, quindi, deve tradire il testo originale?
“Io credo che il tradimento vero sia la scrittura. Perché, come possono testimoniare molti scrittori, quando creo con le parole una storia a cui ho pensato a lungo, tradisco me stesso. Quasi mai, infatti, riesco a ottenere il risultato che desidero. Quello è il vero peccato originale. Il traduttore, invece, cerca di risalire all’ispirazione originale dell’autore. Prova a passare dal testo alla testa dello scrittore, andando addirittura a ricostruire i pensieri che hanno portato a comporre certe frasi”.
Ma tradire, in italiano, ha anche altri significati…
“Infatti. Significa anche fare riferimento alla tradizione. Quindi trasportare certi concetti, dire di più. Uno scrittore illuminato come Jorge Luis Borges diceva: quando leggo i miei libri in altre lingue, imparo sempre tante cose che pensavo di non avere detto. Perché ogni testo tradotto diventa opera di chi quella traduzione firma. James Joyce stesso diceva: vi consegno i miei testi, poi fate un po’ quello che volete. Il purismo, nelle traduzioni, è pura utopia”.
Del resto Joyce stesso, scrivendo “Finnegans Wake”, sapeva bene che ogni traduzione di quel testo sarebbe stata pura reinvenzione in un’altra lingua…
“Infatti, per Fabio Pedone e me è stata una grande ri-creazione. Un divertimento. In Italia, tra l’altro, era già uscita un’altra traduzione completa prima della nostra. Quella di Giuliano Mazza, conosciuta pochissimo perché l’ha pubblicata un editore minuscolo: Abax. Nel mondo ce ne sono soltanto otto. Joyce ha creato un testo che ognuno può leggere come vuole”.
Una reale democrazia letteraria?
“Certo, perché nessuno potrà mai mettere una parola definitiva, autoritaria, su quel testo. Joyce ci ha consegnato un capolavoro scritto con delle parole che sembrano inglesi, ma se le leggiamo ad alta voce ci rendiamo conto che fanno parte di un’altra lingua. C’è una parola bellissima, ad esempio, che è ‘trightyright’. Non esiste nella lingua originale, ma potrebbe suonare in italiano come ‘tradirai’, con tutta una serie di riferimenti anche ai testi biblici. Qualcun altro, però, la interpreterà in maniera diversa. Non a caso, ‘Finnegans Wake’ è stato definito il libro più antifascista di sempre”.
Molte parole derivano dal dialetto triestino?
“Assolutamente sì. Per primo se n’è accorto lo studioso irlandese, che vive a Trieste, John McCourt nel suo libro ‘Gli anni di Bloom’. C’è, ad esempio, una parola in cui Joyce reinventa in inglese i famosi risi e bisi. Lo scrittore era convinto che vivessimo in un universo linguistico frammentato, quasi irrecuperabile nella sua interezza. Per questo provava, anche con gusto provocatorio, a ricreare una lingua infinita che potesse significare tutto e niente. In una lettera al figlio, poco prima di morire, confessava di avere passato cinquant’anni della sua vita a scrutare in un bellissimo vuoto per trovare un meraviglioso niente. Puntava all’ampiezza di senso per farci comprendere che noi nasciamo dal vuoto”.
Testi che certi lettori considerano difficili.
“La letteratura non è solo un abbellimento, un orpello della vita. È la vita stessa. Allora dobbiamo arrenderci al fatto che la nostra esistenza è piena di cose che non comprendiamo, che sembrano impossibili. Pensiamo soltanto alle malattie, alla morte. Joyce dice a tutti i lettori: io rendo la complessità che voi siete. Proprio all’inizio dell’Ulisse ci avvisa che l’oscurità è dentro la nostra anima. E allora, i testi letterari più alti non possono che essere oscuri. Perché sono pieni di anima”.
I traduttori sono poco considerati?
“C’è chi vede ancora il traduttore come una sorta di stampella dell’autore. Certo, può sembrare un mestiere un po’ servile. In realtà, chi traduce lo fa perché tanta gente possa accedere a quei testi. Però è vero che le parole di chi traduce sono sue, non più dell’autore. Lui fa semplicemente quello che ognuno di noi esegue ogni giorno: interpreta, legge ciò che accade e gli dà un senso compiuto. Altrimenti, la realtà che sta attorno risulterebbe incomprensibile. Forse dovremmo trovare il coraggio di ammettere che tutti noi siamo una traduzione vivente”.
<Alessandro Mezzena Lona