Non è facile scoprire lo straordinario talento narrativo di uno scrittore leggendo i suoi saggi sulla letteratura russa. Eppure, quando Einaudi ha pubblicato “I posseduti”, certi lettori attenti si sono accorti subito che tra le pagine del libro batteva il cuore di un autore vero. Anzi, di un’autrice: Elif Batuman. Forte, ironica in modo travolgente, capace di raccontare Dostoevskij e Tolstoj, Čechov e Babel’, con la forza di una Susan Sontag che si è accoppiata con Buster Keaton, e poi ha partorito una bambina dalle doti affabulatorie straordinarie, come ha scritto un critico del “Los Angeles Times”.
E ben pensavano quei lettori attenti. Perché sei anni dopo “I posseduti”, Einaudi ha affidato a Martina Testa la traduzione de “L’idiota” (pagg. 421, euro 21), il romanzo di debutto di Elif Batuman. Un libro che in America è uscito prima della raccolta di saggi sulla letteratura russa. E che ha rivelato il talento della scrittrice nata a New York da una famiglia di immigrati dalla Turchia, il cui nome deriva dalla pronuncia turca del primo nome dell’alfabeto arabo: alif.
Cresciuta nel New Jersey, laureata a Harvard in Linguistica e letteratura russa, Elif Batuman ha proseguito i suoi studi con un Dottorato in Letterature comparate a Stanford, iniziando, nel frattempo, una prestigiosa collaborazione con il “New Yorker”. E portandosi a casa alcuni premi letterari come il Whiting Writers’ Award, il Jona Jaffe Foundation Writers’ Award e il Paris Review Terry Southerrn Prize for Humour.
“L’idiota” di Elif Batuman è una ragazza che ricorda, per tanti aspetti, il Principe Myškin dell’omonimo romanzo di Dostoevskij. Sì, perché Selin arriva a Harvard nel 1995, catapultata lì, nel grande guazzabuglio dell’università, dal suo mondo fatto di un meticciato familiare che l’ha spinto ha impegnarsi molto negli studi, a emergere come studentessa e a coltivare grandi aspettative. E da una realtà dove internet non esiste ancora, dove bisogna appena imparare a scrivere e spedire un e-mail, a usare il cavo ethernet. A immaginare che sia possibile essere connessi con persone lontanissime.
Completamente ignara dei riti della realtà, Selin deve fare i conti con tutta una serie di problemi, di difficoltà molto concrete. Destreggiandosi tra amiche invadenti, momenti irripetibili che, come diceva Marcel Proust, non rivivremo mai più, E la scoperta dell’amore per Ivan, che potrebbe non essere il ragazzo giusto. E che, in ogni caso, la porterà a capire quanto fa soffrire il desiderio di trascorrere i propri giorni con un’altra persona. E quanto è difficile raggiungere per davvero ciò che si vuole con tutte le proprie forze.
Riconosciuta dalla critica come una delle voci più limpide e interessanti della letteratura americana, Elif Batuman è stata inserita quest’anno nella cinquina dei finalisti del Premio dedicato da Firenze allo scrittore Gregor von Rezzori.
“Ho cominciato ad amare gli scrittori russi da quando ero al liceo, in America – spiega Elif Batuman, che capisce abbastanza bene l’italiano, ma non se la sente di parlarlo -. E credo che questa mia passione sia tutta dentro il libro ‘I posseduti’, che Einaudi ha pubblicato in Italia prima del mio romanzo di debutto ‘L’idiota’. Un titolo che, devo confessare, non avevo scelto subito”.
Quindi non pensava a Fedor Dostoevskij mentre scriveva?
“No, il romanzo ha una storia abbastanza lunga. Ho iniziato a scriverlo verso il 2001. Poi l’ho riletto più o meno 15 anni dopo. Accorgendomi che, dal punto della scrittura, andava ancora lavorato, perché poteva risultare immaturo agli occhi dei lettori. Però, in effetti, devo ammettere che ci sono degli elementi in comune con ‘L’idiota’ di Dostoevskij. A partire dal fatto che, in quel romanzo, il Principe Lev Nikolàevic Myškin arriva a San Pietroburgo dalla Svizzera e poi si sposterà a Mosca, entra a far parte di una sorta di circolo dove si parla di libri, di sentimenti, poi si innamora della persona sbagliata. Un percorso che assomiglia a quello della mia protagonista Selin, una matricola curiosa e impacciata di origine turca alle prese con il primo anno all’Università di Harvard”.
L’amore per la scrittura la accompagna da tanto tempo?
“Sì, ho iniziato a scrivere che ero una ragazzina. Ovviamente, all’inizio non andavo al di là di storie molto semplici. Storie da bambini. Però, una cosa di cui ero sicura è che un giorno anch’io sarei riuscita a mettere assieme un mio romanzo. Non mi mancava la fantasia, e nemmeno il piacere di fantasticare sulle pagine che leggevo. Se c’era la storia di una rana, io cominciavo ad andare al di là del testo. Fantasticavo su che cosa avrebbe fatto quel personaggio una volta rientrato a casa dal lavoro”.
Ma lavorare all’università le concede il tempo per scrivere?
“Ho organizzato la mia vita proprio perché volevo avere il tempo per scrivere. Sto finendo il Dottorato in Letterature comparate a Stanford. Quindi cerco di sfruttare tutti i soldi che guadagno, anche preparando articoli per riviste come il ‘New Yorker’, e le ore che mi restano libere per continuare a lavorare su nuovi romanzi”.
La sua scrittura è molto graffiante, ironica. Non assomiglia affatto a quella di certi docenti universitari…
“Credo che l’ironia, il piacere di guardare e raccontare il lato grottesco e buffo della vita, faccia parte del mio modo di essere. Anche perché la mia famiglia arriva dalla Turchia. Quando, d’estate, mi capita di andare nel Paese dei miei genitori, capisco quanto diverso sia il modo di pensare, di comportarsi lì. E anche quanto appaia diversa l’America vista da così lontano. Ecco, credo che l’ironia sia un buon modo per osservare la realtà in maniera più distaccata. Aiuta a sdrammatizzare, a tenere le distanze, a non farsi mai dominare da un pensiero ossessivo. Che è quello che ci porta, poi, alle divisioni e agli scontri”.
<Alessandro Mezzena Lona