• 09/07/2019

Herbert Lieberman, i fiori del Male a New York

Herbert Lieberman, i fiori del Male a New York

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Immaginate uno scrittore. Ma pensate a uno di quelli davvero straordinari. Prendete, ad esempio, la capacità di costruire storie elettrizzanti e buie che aveva Cornell Woolrich. Mescolatele alla bravura affabulatoria, al dono narrativo di saper tirare avanti per quaranta pagine aggrappandosi a un dettaglio, un ragionamento, di un Fedor Dostoevskij. Senza mai allentare la tensione del ritmo narrativo, neanche per un istante. Aggiungete, poi, la capacità tutta americana di non correre dietro ai gusti dei lettori. Di non regalare consolazioni se stai costruendo un libro che punta gli occhi sul lato più oscuro di New York. Ecco, con tutti questi elementi assieme otterrete un romanziere davvero straordinario: Herbert Lieberman.

Herbert Lieberman chi? In effetti, in Italia questo scrittore ormai ottantaseienne non ha mai riscosso grande fortuna. Purtroppo. Ci aveva provato Sperling & Kupfer ormai una vita fa, nel 1986, a tradurre uno dei suoi capolavori: “Il fiore della notte”. Ma quasi nessuno si era accorto del narratore e drammaturgo nato a New Rochelle, Stato di New York, nel 1933. E allora i lettori italiani hanno dovuto aspettare oltre trent’anni perché una casa editrice dai tanti meriti come minimum fax decidesse di proporre uno dei suoi romanzi più amati in Francia. Quella “Città di morti” (traduzione di Raffaele Vitangeli, pagg.505, euro 19) che aveva ottenuto il Grand Prix de Littérature Policière nel 1977.

Sarebbe facile dire, adesso, che dei romanzi di Herbert Lieberman ci si innamora dopo aver letto soltanto poche pagine. No, usare la retorica per dire quanto bravo sia lo scrittore di New Rochelle sarebbe sbagliato. Perché come tutti i grandi narratori, anche lui costruisce le sue storie con mosse tattiche studiate, calibrate, spesso rallentate apposta, riservandosi gli improvvisi attacchi di cavalleria quando servono davvero.

Per esempio, in “Città di morti”, prima di entrare davvero nel cuore torbido della vicenda, Herbert Lieberman deve comporre un ritratto vivo, preciso, appassionato del protagonista: quel Paul Konig che non è solo il medico legato e anatomopatologo più noto di New York, e forse dell’America intera. Ma è, soprattutto, un uomo che ha fatto della sua professione il centro di gravità della sua stessa vita. Finendo per trascurare la famiglia, gli amici. Soprattutto sua figlia Lauren, che non ha mai capito. Apprezzato per quel che è. Tanto da scoprire il suo indubbio talento di pittrice soltanto quando qualcuno la porta via. La sequestra con l’intento di farle del male, se non verrà pagato un cospicuo riscatto.

Ma l’aspetto che conquista di più, in “Città di morti”, non è tanto la capacità che ha Herbert Lieberman di costruire un intrigo dinamitardo, forte e lucido, senza mai perdere il filo del racconto. Senza lasciare che la pressione fortissima che gli eventi esercitano su Paul Konig si allenti anche solo per poche pagine. Ma è soprattutto l’intuizione di spingere il medico legale verso scelte inconsulte dettate dall’angoscia e dal rimorso di aver trascurato, ignorato sua figlia, tanto da non accorgersi che stava subendo l’influsso di un gruppo di balordi finto rivoluzionari, mentre attorno a lui si addensano altre gravi minacce. Tra cui quella di perdere il proprio ruolo di stimatissimo anatomopatologo, per una serie di errori compiuti da suoi collaboratori.

E se la Francia ha celebrato Herbert Lieberman per “Città di morti”, l’Italia dovrebbe inventarsi un premio, un omaggio in qualche festival, o qualsiasi altra forma di riconoscimento da dedicare allo scrittore americano, dopo aver letto un autentico capolavori com e “Il fiore della notte”. Tradotto da Tullio Dobner per minimum fax (pagg. 467, euro 19), questo romanzo uscito negli States nel 1984 ricorda fin dalle prime battute il verso di Thomas Stearn Eliot che apre “La terra desolata”. Perché a New York aprile sembra davvero “il più crudele dei mesi”. Dal momento che il detective Francis Mooney, sempre in quel periodo, deve fare i conti con un assassino imperscrutabile e inafferrabile. Un tipaccio che, dopo aver fracassato una vittima a caso gettando blocchi di cemento dall’alto di un palazzo scelto senza logica apparente, si eclissa per un lunghissimo periodo. Ritornando in azione soltanto quando si avvicina di nuovo l’appuntamento con la Morte.

Nel “Fiore della notte”, Herbert Lieberman non si limita a inventare uno degli assassini più freddi, malvagi e difficili da smascherare della letteratura contemporanea. Anzi, si diverte a costruire la storia attorno a due personaggi fuori rotta, che è impossibile non amare. Uno è il detective Francis Mooney, un vecchio sbirro arrivato ormai a fine carriera, solitario e insofferente, che nessuno osa ostacolare o rimuovere all’interno del Dipartimento di Polizia di New York, dal momento che nel passato ha risolto casi assai astrusi e conosce bene i fiori del Male della Grande Mela. Il problema è che, davanti alle imprese dell’assassino che uccide con i blocchi di cemento, non sembra capirci niente. A cominciare dal fatto che si fida di un personaggio a dir poco inquietante. un tale Charles Watford,  bugiardo inguaribile, geniale e maniacale balordo. Uno che vive procurandosi malattie non gravi che gli consentono dio farsi ricoverare per certi periodi negli ospedali, risparmiando così i soldi del cibo e dell’affitto. Un uomo senza scrupoli che falsifica le ricette di un potente sedativo come il Demerol, inghiottendo pillole come fossero caramelle. Finendo per stordirsi con lo stesso analgesico oppiode sintetico di cui si imbottiva la popstar Michael Jackson.

Ma cosa porta un poliziotto che ne ha viste di ogni sorta nella sua carriera a fidarsi di uno sgusciante figuro come Charles Watford? Semplice: la convinzione che quell’uomo, al di là del fumo denso delle bugie che racconta, possa ricordare qualcosa di fondamentale per l’inchiesta. Ovvero, parole precise che l’assassino gli ha bofonchiato un giorno in ospedale, sotto l’effetto dell’anestesia, quando si erano ritrovati per caso ricoverati nella medesima stanza.

Imbattibile nell’inventare personaggi veri, vivi, credibili, perfetti per un romanzo, bravissimo nel saper dosare descrizioni, pagine di riflessione, incursioni nell’animo dei suoi sbirri e degli assassini, Herbert Lieberman scrive romanzi con la stessa magica bravura di un incantatore di serpenti. Sottrarsi alla melodia delle sue storie, alla forza oscura di intrecci narrativi che avviluppano e stringono come le spire di un boa, è davvero difficile.

<Alessandro Mezzena Lona

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