• 31/08/2020

Herbert Lieberman, il noir è un affare per scrittori veri

Herbert Lieberman, il noir è un affare per scrittori veri

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Ci provano in tanti a scrivere romanzi noir. Perché sembra facile. Basta inventarsi una serie di morti misteriose, un investigatore che sia caratterizzato d qualche balordaggine. Aggiungere una femme fatale, una città allo sbando, un po’ di personaggi bizzarri come contorno. E il gioco è fatto. O, almeno, così sembra. Perché, poi, dopo aver giustificato, quasi approvano la melensaggine della stragrande maggioranza di romanzi polizieschi che arrivano sul mercato librario, ti imbatti in un genio assoluto. Un mago della trama. Una divinità del raccontare. Una star assoluta della suspense, del colpo di scena. E allora pensi che il mondo è davvero ingiusto. Perché a Herbert Lieberman dovrebbero assegnare i premi più importanti. E intitolargli famose scuole di scrittura. Anche se lui non è morto. Vive a Los Angeles, ha 87 anni, e moltissimo tempo fa, nel 1977, ha vinto in Francia il prestigioso Grand prix de littérature policière per il romanzo “Città di morti”.

E qui, critici e lettori italiani devono intonare ad alta voce il loro mea culpa. Perché nel 1984, la casa editrice Sperling & Kupfer aveva tradotto uno dei libri più belli scritti da Herbert Lieberman, “Il fiore della notte”, senza ottenere il successo sperato. Così, grazie a questa provvidenziale disattenzione, abbiamo dovuto aspettare che avanzassero gli anni Duemila per poterci immergere di nuovo tra le pagine del narratore e drammaturgo di New Rochelle. Per fortuna ci ha pensato un editore dai tanti meriti come minimum fax a far uscire a distanza ravvicinata i romanzi della trilogia: “Città di morti” e “Il fiore della notte” nel 2018 e 2019, tradotti da Tullio Dobner, e “Caccia alle ombre” (pagg. 517, euro 20) pochi mesi orsono nella traduzione di Raffaella Vitangeli.

Nel 2019, su Arcane Storie, ho già scritto il 9 luglio in “Herbert Lieberman, i fiori del male a New York” che lo scrittore americano sembra essere nato da una storia d’amore tra i grandissimi Cornell Woolrich e Fedor Dostoevskij. Per la capacità di costruire una trama che non perde mai quota, che non deraglia neanche quando le pagine scorrono veloci, che regala al lettore personaggi del tutto credibili e investigatori per niente infallibili. Ma “Caccia alle ombre” riesce a coinvolgere ancor più dei primi due volumi della trilogia. Perché qui, l’autore osa l’impossibile.

A dare scacco matto all’intero dipartimento di polizia di New York, in “Caccia alle ombre”, è un assassino sfuggente. Lo chiamano l’Ombra Danzante perché scivola nelle vita delle sue vittime senza far rumore, violenta le donne e le uccide spesso insieme ai loro mariti, compagni, fidanzati. Poi ruba tutto quello che potrebbe rivendere senza procuparsi troppi guai. E sparisce nel nulla, ma solo dopo aver tracciato sui muri un disegno osceno contornato da una sequenza di numeri senza un’apparente logica.

Non è certo questa, però, la messinscena che turba i sonni del tenente di polizia Frank Mooney. Anche perché lui, a cui mancano un pugno di mesi per andarsene in pensione, si è già trovato a fronteggiare un osso duro come il serial killer de “Il fiore della notte”. Un tipaccio insospettabile che ammazza le sue vittime facendo precipitare dall’alto dei palazzi, posti nella zona dei teatri a New York, pesanti blocchi di cemento. In “Caccia alle ombre”, però, l’indagine si fa più difficile perché c’ è qualcuno che si alterna all’Ombra Danzante nel seminare vittime. Una sorta di imitatore, forse un ammiratore folle, che copia le sue modalità criminali. Ma lascia sempre qualche dettaglio fuori posto per farsi riconoscere.

Ed è qui che Herbert Lieberman sfodera la sua idea più inquietante. Perché, mentre la polizia impazzisce nel tentare di dare un volto agli assassini, e perfino il medico legale e anatomopatologo Paul Konig, che era al centro di “Città di morti” con un’indagine angosciante sul rapimento di sua figlia, non riesce a tracciare un quadro lucido del caso, lo scrittore spalanca un angusto pertugio sulla vita dei due possibili killer. Alza la tensione seguendo i loro passi sulle tracce di nuove vittime, mentre l’opinione pubblica inveisce contro gli inetti investigatori e i politici chiedono che venga revocato l’incarico al tenente Frank Mooney.

Impossibile non farsi trascinare dentro la trappola mortale di Herbert Lieberman. Perché quando la polizia sfiora più volte l’assassino, ma non capisce che è lui, si comincia a leggere le pagine del romanzo a precipizio. Si tallona l’Ombra Danzante al fianco di un sempre più disperato Frank Mooney, che può contare ormai solo sull’aiuto del giovane detective Rollo Pickering, visto che il Dipartimento lo ha di fatto esautorato. Si spera in maniera spasmodica che il fiuto del vecchio tenente non si faccia ingannare dalla paranoica genialità dell’assassino. Fino ad arrivare a un finale del tutto sorprendente, tra le ombre di una New York dove accanto al lusso, alla ricchezza ostentata, convivono situazioni di degrado inimmaginabili. Una palude fetida, brulicante di disperati, dove l’Ombra Danzante sguazza come nella piscina di casa.

Maestro del dialogo, artista nel descrivere i personaggi, abilissimo a stemperare la tensione cesellando poche, selezionate pagine con raffinate descrizioni da grande narratore, Herbert Lieberman dimostra con i suoi romanzi, e “Caccia alle ombre” è decisamente uno dei migliori, che il noir non è un genere di intrattenimento. Non consola, non regala illusioni, non abbassa lo sguardo davanti all’orrore, non ha paura di sputare in faccia a una società ipocrita e indifferente. Perché se vuoi scrivere storie come queste devi avere il coraggio di scrutare negli angoli bui della realtà. Devi smettere di illuderti sulla correttezza e la disponibilità del tuo prossimo. Devi scavare  nell’acqua torbida del vivere. E poi metterti a scrivere,  a perdifiato, come se l’Ombra Danzante ti alitasse sul collo.

<Alessandro Mezzena Lona

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