• 03/09/2019

Francesco Pecoraro: “Il mio sguardo di architetto sulla Città di Dio”

Francesco Pecoraro: “Il mio sguardo di architetto sulla Città di Dio”

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Francesco Pecoraro non è un inventore di teoremi. Quando pensa un libro non inmmagina storie che, per forza, devono seguire una traiettoria lineare, definita, immutabile. No, l’architetto che ha debuttato come scrittore a 62 anni, nel 2007, con i racconti “Dove credi di andare”, segnalato subito dal Premio Napoli e dal Giuseppe Berto Opera Prima, preferisce immergersi nel caos della realtà. Affidare allo sguardo dei personaggi il compito di decodificare il tempo che racconta. Lasciando che la sua prosa si stratifichi in un magma fluviale e densissimo fatto di riferimenti alla Storia e alla quotidianità. Segnalando il divenire delle abitudini, dei modi di vivere, dell’organizzazione sociale, mentre punta gli occhi sulle mutazioni, spesso sugli scempi operati sull’architettura dei luoghi e del paesaggio.

Da sempre, la critica ha capito che Francesco Pecoraro è un autore che non scrive per scalare le classifiche dei libri più venduti. Che non inventa metafore usa-e-getta buone solo ad assecondare certe mode transitorie degli ambienti intellettuali. No, l’architetto che per tanti anni ha lavorato per il Comune di Roma affida a ogni suo libro il compito di aprire un orizzonte di senso sul nostro presente. E lo fa anche ne “Lo stradone”, il romanzo pubblicato da Ponte alle Grazie (pagg. pagg. 446, euro 18), che la Giuria dei Letterati ha inserito nella cinquina dei finalisti al Campiello 2019.

Sabato 14 settembre, Francesco Pecoraro sarà protagonista al Teatro La Fenice della serata finale del Premio veneziano insieme a Giulio Cavalli e al suo “Carnaio” (Fandango Libri), Paolo Colagrande e “La vita dispari” (Einaudi), Laura Pariani e “Il Gioco di Santa Oca” (Ponte alle Grazie), Andrea Tarabbia e “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri).

Sullo Stradone, che attraversa una Città di Dio in pieno decadimento, si puntano gli occhi di un uomo settantenne. E raccontando i tanti personaggi che seguono quell’itinerario, che attraversano il suo orizzonte, lui riesce a mettere a fuoco i conflitti della società. L’involuzione di un Partito che sognava ci cambiare faccia alle cose, ma si è lasciato addomesticare dalla corruzione e dall’incapacità di essere davvero controcorrente. Il rifugiarsi nelle paure di una società che solo nei riti degli esorcismi verso chi è diverso, e la pensa in modo diverso, riesce a trovare una sua traballante identità. Il fallimento di un secolo come il ‘900 che ha cullato ideali di rivoluzione, mitizzando personaggi interlocutori come Lenin, e finendo per dedicarsi in maniera maniacale al culto di un’eterna giovinezza, alla mercificazione dei corpi e alla serialità della pornografia. Producendo una nuova generazione di disillusi pronti a tutto, che niente sanno dei vecchi sogni della classe operaia. Che vivono la medietà di un Grande Ripieno, dove gli ideali e le ideologie si sono fuse in un’anonima melassa.

Facile pensare che la Città di Dio voglia simboleggiare la sempre più decadente Roma. E che il Partito racconti l’ascesa e il declino inarrestabile del sogno comunista italiano. Ma Francesco Pecoraro voleva davvero costruire una gigantesca metafora con il suo “Stradone”?

“Scrivendo il mio ‘Stradone’ non pensavo a costruire una metafora – spiega Francesco Pecoraro  , che con il romanzo ‘La vita in tempo di pace’ ha vinto il Premio Viareggio e il Mondello ed è stato finalista allo Strega nel 2014-. Può essere inevitabile quando un libro, come il mio, ruota attorno a una immaginaria Città dio Dio in cui molto riconoscono Roma. Ma il desiderio di fare di questa storia qualcosa di metaforico non è affatto intenzionale. Il mio romanzo, invece, nasce da una serie di annotazioni, di considerazioni messe da parte nel corso di parecchi anni. A un certo punto mi sono reso conto che formavano una sorta di trattato sui luoghi che mi circondano. Allora ho deciso di dare a tutto questo materiale un senso. Ecco, posso dire che anche per tutti i miei libri non c’è mai un progetto definito fin dall’inizio”.

Alla fine dello “Stradone” lei mette una piccola bibliografia. Perché?

“Tutta la parte che riguarda la storia dei luoghi, della comunità operaia e della sua disgregazione, la fine del nucleo industriale, è vera. Racconta i fatti che io stesso ho trovato dentro i libri consultati nelle biblioteche. Del resto, il protagonista del libro, a un certo punto, dice di avere avuto bisogno di approfondire la storia di quei posti. Poi, è normale che dal particolare si arrivi all’universale. E allora, per capire certe vicende ho raccontato anche il passaggio per Roma di Lenin, che non era ancora quel leader riconosciuto della rivoluzione bolscevica. Ma stava tentando di tenere sotto controllo le varie anime di un complesso mondo ideologico”.

L’affascinava raccontare un Lenin che non era ancora quello cristallizzato nel mito, immortalato in tanti ritratti?

“C’è una leggenda che racconta la visita di Lenin a Roma. Ed è logico che uno scrittore, quando si imbatte in una storia del genere, drizza le orecchie. In realtà lui ci passò soltanto due volte, nel 1908, sempre come base per andare e tornare da Capri. Attraverso questo episodio mi interessava analizzare la situazione della classe operaia romana in rapporto con quello che sarebbe poi diventato il leader riconosciuto del comunismo internazionale.

C’è una pagina, proprio all’inizio del libro, in cui il protagonista elenca tutte le cose false, però vere…

“E una specie di rap. In cui il protagonista esprime lo sconcerto nei confronti della fenomenologia che lo circonda. Una realtà fatta, per la maggior parte, di oggetti, azioni, parole, pensieri, che non sono convincenti, veri. A cui, però, noi siamo completamente abituati. E per questo non ci facciamo più caso”.

La aiuta il suo sguardo di architetto, molto geometrico, preciso, nella scrittura?

“In realtà non faccio più l’architetto da dieci anni. Ho smesso quando ho cominciato a pubblicare i racconti ‘Dove credi di andare’ nel 2007. Tanto che ho preso tutti i libri e le riviste di architettura e li ho portati in cantina. Ho cercato, potrei dire, di liberarmi un po’ della formazione architettonica, che è stata molto importante per me. Tanto che quello sguardo, quel tipo di approccio alle cose, è rimasto. Non so dire se sia un vantaggio o uno svantaggio. Certo è che il mio modo di osservare la realtà passa da lì”.

La aiuta anche a orientarsi nel caos che ci circonda?

“Certo, la mia narrativa non ha come obiettivo i sentimenti. Non mi interessa raccontare quel tipo di storia. Preferisco concentrarmi sulle vicende collettive, sul tempo che abbiamo attraversato. E allora, forse questo interesse per una realtà che non sia solo privata deriva anche dalla mia formazione di architetto”.

Il primo libro l’ha pubblicato 12 anni fa. Ma quando si è scoperto scrittore?

“In realtà ho iniziato a scrivere nel 1980. La mia passione letteraria è rimasta sottotraccia per un lungo periodo. Poi, dopo gli anni Duemila, ho deciso di lasciare tutto, andare in pensione dall’attività di architetto un anno prima del previsto, dovendo versare dei contributi molti alti per poter chiudere la carriera, e dedicarmi con serietà all’attività letteraria. Nel 2007, come dicevo, ho pubblicato i racconti ‘Dove credi di andare’. Nel 2010 ho iniziato a scrivere il primo romanzo”.

Lei non è uno scrittore acchiappalettori. Ma la critica la ama?

“Uno scrittore non dovrebbe mai pensare a che cosa vogliono i lettori. Se lo fai, significa che hai bisogni di campare con i tuoi libri, e quindi ti pieghi alle leggi del mercato. Io, per fortuna, non vivo di scrittura. Ho lavorato 35 anni per il Comune di Roma, sono pensionato, non ho bisogno di andare ad acchiappare gente per farle leggere i miei romanzi. Cerco di essere leggibile, ma non riuscirei proprio a portare a termine una storia inventata per raggiungere il successo, e basta. E tutto sommato non posso lamentarmi: ‘La vita in tempo di pace’ ha venduto tra le 15 e le 16mila copie. È piaciuto in Spagna, in Olanda. Comunque rimango sempre uno scrittore di nicchia”.

C’è chi resiste, in Italia, alle sirene del mercato?

“Per fortuna sì. Non credo, però, che l’intenzione di certi autori sia quella di resistere alle sirene del mercato. Ma, piuttosto, di scrivere buoni libri. Io ammiro molto chi scrive romanzi di grande successo. Perché ci vuole mestiere. Diciamo che mi sento più in sintonia con uno come Vitaliano Trevisan:  “Works” è un romanzo meraviglioso, che non ha avuto il riconoscimento che meritava. In altri momenti, la letteratura italiana lo avrebbe salutato come un libro importante. Ma adesso non credo sia facile modificare la situazione editoriale”.

Qualcuno dice che c’è Pier Paolo Pasolini tra i suoi punti di riferimento letterari. È così?

“È strano, perché altri parlano di influssi di Carlo Emilio Gadda sulla mia scrittura. Che, se pensiamo bene, l’Ingegnere era proprio l’antitesi letteraria a Pasolini. Ho un grande amore per il poeta e regista di Casarsa e per i suoi temi, ma abbiamo sguardi diversi sulla realtà. Poi, la critica ha tutto il diritto di vedere le somiglianze che vuole. Se devo dichiarare qual è il mio scrittore di riferimento, penso senza dubbio a Beppe Fenoglio”.

Più stupito o più felice di essere in finale al Campiello?

“L’ingresso tra i finalisti del Campiello mi ha soprattutto sorpreso. Non me l’aspettavo assolutamente. La serata finale mi preoccupa un po’. Sono una persona timida, non mi piace stare in mezzo a troppa gente, parlare in pubblico. Mi toccherà prendere degli ansiolitici per essere più tranquillo”.

<Alessandro Mezzena Lona<

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