Il suo “Libro dei sogni” era piaciuto molto a Italo Calvino. Anche Carlo Levi aveva letto, in dattiloscritto, quel testo pieno di disegni. E aveva espresso lusinghieri giudizi sulla sua autrice: Maria Lupieri. Potremmo aggiungere che un giovane Rodolfo Wilcock, considerato oggi uno dei più originali e apprezzati autori del catalogo Adelphi, era stato in grande sintonia con l’artista nata a Trieste nel 1901, da una famiglia originaria di Preone, in Friuli, e morta a Roma nel 1961. E non sarebbe giusto dimenticare la grande amicizia che legò l’artista a Linuccia Saba, la figlia del poeta Umberto, che si era prodigata per far conoscere il suo lavoro a personaggi influenti del mondo dell’editoria. Gente del calibro di Giulio Einaudi e Aldo Marcovecchio. Eppure, da troppi anni attorno al nome di quella che lo scrittore Carolus L. Cergoly definì “la Gertrude Stein triestina, la Gertrude Stein adriatica”, è sceso un silenzio inspiegabile.
Per fortuna, a Trieste c’è chi non ha dimenticato questa poliedrica e originalissima pittrice e illustratrice, capace di scrivere anche testi molto belli. Si deve, infatti, alla grande tenacia, passione e competenza di Roberto Benedetti, filologo e ricercatore, se adesso riaffiora un libro sorprendente di Maria Lupieri. Si tratta in apparenza di una fiaba, scritta e disegnata da Maria Lupieri: “Gri-Gri e il paese dei gatti pescatori”, pubblicato in un’edizione curatissima e di rara raffinatezza pubblicata da Olmis (pagg.87, euro 20).
Una fiaba, si diceva, ma soltanto in apparenza. Perché Maria Lupieri, grande appassionata di Tarocchi, affascinata dal mondo onirico e dalle storie in cui il velo sottile della realtà si strappa per aprire un passaggio verso il mistero, scrivendo la storia del gatto Gri-Gri non poteva non trasformare le tappe del suo progressivo aprirsi alla vita in un viaggio iniziatico. In una sorta di trasmutazione alchemica, di ricerca del proprio vero sé nel confronto con la realtà. In un “solve et coagula”, insomma, che porterà l’unico micio grigio a trovare il proprio posto in una comunità di felini tutti neri, screziati di bianco.
L’Opera al Nero, il percorso sul sentiero della conoscenza di Gri-Gri, parte proprio dalla scoperta dell’ìmpossibilità di continuare a vivere in una comunità di gatti tutti uguali. Perché lui, unico dalla pelliccia grigia, finisce sempre per essere elemento di disturbo in quella società di simili. Di felini che hanno una scuola tutta per loro, una serie di giochi ben definiti, un modo di capirsi al volo, che tende a escludere chi non riesce a sintonizzarsi. E, allora, il gattino dal colore diverso, stufo di essere canzonato ed emarginato. decide di andare a interrogare la trota sapiente.
Come in ogni storia iniziatica, Codapiatta, opportunamente riverita a suon di bocconi di pane gettati da Gri-Gri direttamente nella sua boccona, non può che consigliare al gattino di consultare una maestra che ne sa più di lei: la civetta che sta sull’abete gigante. Ma nemmeno Orecchiuta, raggiunta dal micio dopo un’ardita scalata in verticale, riesce a dargli la soluzione al suo problema: “Di gattini come te da queste parti non ne ho mai visti”. In compenso, però, gli consiglia di non mancare al ballo delle lepri bianche, in onore della luna piena.
La festa è solo un altro passaggio nel rituale di ricerca del proprio centro di gravità. Perché Gri-Gri dovrà affrontare una ben più terrificante ascensione di quella compiuta per raggiungere Orecchiuta. Finirà per volare tra le grinfie di un’aquila. E poi sarò costretto a confrontarsi con un suo simile assai più dispotico dei micetti nero-bianchi: il tremendo Putiferio, che sorveglia la casetta del guardaboschi.
E proprio quando la speranza sembra pronta ad abbandonarlo, mentre Gri-Gri fugge disperato per il bosco, gli apparirà Ciuffi-Ciuffa, la sua vecchia compagna di giochi, figlia della maestosa gatta Ciuffona. Sarà lei la chiave di volta di tutta la storia: “Io ti voglio bene proprio perché sei grigio”. La lunga ricerca del proprio posto nel mondo si può concludere. Perché il vero centro di gravità di Gri-Gri è lì dove è sempre stato: in mezzo ai gatti nero-bianchi. Tra i suoi simili che non lo capivano, perché era lui prima di tutto a dover capire se stesso. A doversi accettare.
Solo a un lettore frettoloso, “Gri-Gri e il paese dei gatti pescatori” può sembrare una fiaba destinata ai ragazzi. In realtà, il racconto illustrato da Maria Lupieri ha tutti i crismi della storia sapienziale. Infatti l’artista, che non aveva gatti per casa pur amandoli molto, considerava i felini come messaggeri dell’altrove. Lo dimostrano quelli disegnati nei suoi tarocchi, ma anche “Bastet, la dea gatta” dipinta attorno al 1949. Lo conferma, ancora, la sintonia immaginata tra felini e marziani in alcuni disegni inviati alla rivista della Pirelli nell’agosto del 1961. Illustrazioni che, come ricorda Roberto Benedetti, vennero definite dal poeta Vittorio Sereni “quanto di meglio si potesse desiderare”.
Sintonia tra felini e marziani che, peraltro, Maria Lupieri condivideva con il giovane e promettente scrittore di origine argentina Rodolfo Wilcock. Tanto da portarlo a scrivere un racconto intitolato “I marziani”, che poi muterà ne “Gli extraterrestri” al momento di inserirlo nel suo libro “Lo stereoscopio dei solitari”, pubblicato nel 1972.
Ma c’è qualcosa di ancora più personale che rende la parabola di Gri-Gri personalissima e commovente. Maria Lupieri non era una donna che si potesse definire bella. C’è una foto, che la ritrae di spalle, decisamente significativa. Perché, come scrive Roberto Benedetti, coglie perfettamente “la levità di un gatto e la pesantezza di un corpo dissonante visto di spalle, misconosciuto, tra la forma mobile dell’acqua e quella rigida della roccia, dove acqua e roccia evocano architetture della memoria presenti in tanti quadri della Lupieri“. Quel corpo massiccio è lì a ricordarci quanto la non perfetta forma fisica, la non scintillante avvenenza, l’assenza di bellezza secondo i canoni imposti dai più, finirono per tracciare un solco netto all’interno della vita della pittrice e scrittrice. Tanto da portarla a riflettere, a fantasticare sul ruolo dell’altro, di chi non è allineato, di chi fa fatica a essere accettato, in diverse prose, in tanti disegni. Ma anche nei rapporti con le persone. Non va dimenticato, infatti, che tra le sue amiche più care c’era la scultrice ermafrodita Fiore de Enriquez. Un’artista, una persona, destinata ad attirare sguardi, giudizi imbarazzati e perplessi. Allora come ora.
<Alessandro Mezzena Lona<