• 30/10/2019

Wytske Versteeg, quando i pregiudizi uccidono un “Boy”

Wytske Versteeg, quando i pregiudizi uccidono un “Boy”

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Sarebbe facile, la vita, se a comandare fossero alcune parole. Se bastasse dire amore. Se fosse sufficiente evocare la felicità. Se per aprire la strada a un bambino verso il mondo degli adulti risultasse fondamentale appellarsi al rispetto, alla convivenza disarmata e tollerante, all’innocenza. Sarebbe facile, appunto. Ma le parole non bastano. E quasi sempre vengono usate contro l’altro. Diventano armi improprie nella bocca, nei pensieri, di chi non accetta che esista qualcuno diverso da sé. Che la società sia popolata di persone tutte uguali, eppure profondamente originali. Fragili e forti, comunque inimitabili.

Ogni parola può essere sbagliata, dipende da come la si usa. Perfino il nome che due genitori danno al proprio figlio rischia di diventare un boomerang. Lo capiscono troppo tardi Mark e sua moglie, la psichiatra, quando decidono di chiamare il loro bambino Boy. Perché lui finisce per indossare con troppa convinzione, originalità e timidezza quello che è il simbolo stesso della condizione umana. La transitorietà del vivere l’adolescenza, di essere veramente ragazzi, di cercare il proprio passaggio verso la vita adulta senza un peso troppo gravoso di dolore e inadeguatezza da portarsi appresso.

“Boy” non è soltanto un nome. È anche il protagonista presente-assente del romanzo di Wystske Versteeg. È il perno attorno a cui ruota una storia dura, dolorosa, attualissima, raccontata dalla scrittrice olandese nel suo libro tradotto da Claudia Di Palermo e Cecilia Casamonti per la casa editrice Scritturapura (pagg.123, euro 15). È un segno di contraddizione , un elemento perturbante, che entra all’improvviso nella vita di un uomo e una donna. È un bambino, un ragazzo dalla pelle scura portato all’improvviso n un Paese dove sono quasi tutti bianchi, con i capelli biondi e gli occhi chiari.

In realtà, la vera protagonista del romanzo è una donna. Una psichiatra che parla quasi sempre in prima persona, raccontando i fatti della storia dal suo punto di vista. Una persona che fa fatica a confrontarsi con i sentimenti, che ha scoperto presto, insieme al marito Mark, di non poter mettere al mondo i suoi bambini perché la Natura le ha negato questa possibilità. Donandole quello che viene definito (ecco ancora la forza delle parole) un “utero ostile”. Non idoneo, insomma, ad accogliere la vita. Eppure lei, che non ama farsi toccare, che non riesce quasi mai a esprimere le proprie emozioni, anche se è molto brava a dare ascolto agli altri, decide di adottare un orfano africano. E lo fa crescere ripetendogli sempre che desidera per lui una vita felice.

A stare attenti, le parole segnano la vita di Boy da subito. Perché lui è un bambino che “ha ucciso sua madre”, come dice la voce della superstizione. Nel senso che, quando è venuto al mondo, si è trovato da subito a dover competere con la persona che lo generava. Chiedendole di farsi da parte, di rinunciare alla propria vita, per fare spazio a lui.

Ma come si fa a proteggere un bambino dalla cattiveria di chi gli vive accanto? Come si fa a schermarlo dal pregiudizio, dalla diffidenza verso chi non è esattamente uguale a noi? Boy cresce come un ragazzo modello: educato, rispettoso, sempre ordinato ed elegante. Eppure, per i suoi compagni di classe è solo un bersaglio per sfogare tutta la rabbia che l’adolescenza trascina con sé. Lo chiamano frocio, lo prendono in giro per i silenzi e la timidezza, lo criticano per i vestiti troppo poco alla moda e per quel modo controllato e formale di rivolgersi agli adulti. Ma nessuno sembra accorgersi di quanto quell’adolescente venga spinto sempre di più in un angolo fatto di disperazione e solitudine.

Un giorno Boy non rientra a casa. E dopo forsennate ricerche, a cui partecipano vicini, conoscenti, persone della scuola a cui era iscritto il ragazzo, finalmente lo ritrovano. Però di lui resta ben poco. Solo il desiderio di una madre, molto più forte di quello del padre, di ricostruire i perché della morte. Di capire non soltanto se ci sono state responsabilità in quell’uscire di scena così disperato di un adolescente, ma anche di ricostruire qual è stata la sua vita segreta. Le giornate di cui non raccontava nulla in famiglia. I momenti di disperazione. la rabbia per non essere stato accettato dai suoi coetanei, la volontà di arrendersi alla cattiveria del mondo.

Entra, così, in scena Hannah, la sua insegnante di recitazione. Una donna che deve avere avuto un ruolo importante nei giorni difficili di Boy a scuola. Ma che, all’improvviso, ha deciso di mollare tutto e di trasferirsi in uno sperduto non luogo nella campagna della Bulgaria, molto distante da Sofia. Sarà lì, dove la mamma del ragazzo la raggiungerà fingendosi una volontaria pronta a dare una mano nell’organizzare quell’esperienza solo in apparenza bucolica, che inizierà un confronto serrato, difficile, a tratti drammatico tra le due sconosciute. Un dialogo che porterà entrambi a fare chiarezza nelle proprie vite. E in quella del figlio/scolaro perduto. Soltanto dopo aver guardato dentro l’abisso dei propri segreti, delle cose mai dette. Di quel desiderio irrealizzato di portare amore e felicità nelle giornate dei propri cari.

“Boy” non è solo un romanzo sul bullismo, sulla difficoltà di essere adolescenti, sul rispecchiarsi della crudeltà degli adulti nel mondo dei ragazzi. Il libro di Wytske Versteeg, che dopo essersi specializzata in politologia fa parte adesso dell’Urban Futures Studio dell’Università di Utrecht, sa affrontare con grande lucidità, e altrettanta sensibilità, le contraddizioni della famiglia, le fragili sicurezze e le altrettanto evidenti incertezze dei rapporti d’amore, del legame tra genitori e figli. Senza dimenticare di entrare nel complesso reticolo di contatti che intercorrono tra insegnanti e studenti, sempre in equilibrio precario tra rispetto e sfida dell’autorità, attrazione e istintiva repulsione tra mondi così lontani.

Con una lingua ricca, eppure tagliente, uno stile che sa aprire le ferite più dolorose e farle sanguinare senza mai concedersi inutili eccessi, un modo di raccontare davvero originale ed efficace, Wytske Versteeg dipinge in “Boy” il ritratto di un mondo sempre più incapace di liberarsi della sua irrazionale malvagità, di un’inspiegabile diffidenza verso l’altro. E che davanti alla morte assurda di un ragazzo alza le mani in segno di resa. Come se fosse possibile sradicare dal proprio cuore tanto odio. Tanta colpevole indifferenza.

<Alessandro Mezzena Lona<

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