Un messaggio pubblicitario dice: se la Terra si ammala, anche noi stiamo male. Però non ha il coraggio di rivelare che, purtroppo, l’apocalisse climatica sembra ormai un evento inevitabile. Per non. terrorizzare la gente, spesso si lascia credere che ci sia ancora un ampio margine di manovra per scongiurare l’estinzione degli uomini. Ma c’è chi, a raccontare la favoletta delle limitazioni graduali alle emissioni di gas nocivi, della riduzione progressiva dello sfruttamento delle risorse del pianeta, non ci sta più. Basta leggere quello che lo statunitense Jonathan Franzen va scrivendo da tempo. Ovvero che è troppo tardi per mobilitarci. Che il tempo per un’azione collettiva è già passato. Che abbiamo fallito, ma non troviamo il coraggio di ammetterlo.
Non è da oggi che Jonathan Franzen va sostenendo che “le misure collettive per ridurre le emissioni di CO2 erano fallite da tempo e avrebbero continuato a fallire”. Ma gli esponenti dei maggiori gruppi ambientalisti hanno sempre controbattuto alle affermazioni dell’autore de “Le correzioni”, “Purity”, “Il progetto Kraus”, con parole stizzite. Perché la loro battaglia si stava concentrando soltanto sul problema del cambiamento climatico. Lasciando in secondo piano tutti quei suoi ragionamenti sul fatto che dovremmo “prestare più attenzione al mondo della natura, perché si possono ancora prendere misure di conservazione significative ed efficaci”.
Spesso, dopo l’uscita dei saggi di Jonathan Franzen raccolti nel volume “La fine della fine del mondo”, e dopo alcuni suoi interventi pubblici, sembrava che dal mondo degli ambientalisti gli arrivasse un silenzioso, ma fermo, invito a continuare a scrivere di letteratura. Come a dire: occupati di quello che sai fare. Così, avrebbe smesso di pubblicare articoli sul clima che facevano infuriare personaggi come l’attivista americano Bill McKibben.
Per fortuna, lo scrittore di Western Springs, Illinois, ha tirato dritto per la sua strada. Decidendo di dedicare a questi argomenti un nuovolibretto assai interessante. Si intitola, in maniera del tutto provocatoria, “E se smettessimo di fingere?”. Il sottotitolo chiarisce ancor meglio il concetto: “Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica”. Lo ha tradotto Silvia Pareschi per Einaudi (pagg. 42, euro 10).
Jonathan Franzen non ha paura a recitare la parte di quello che rovina la festa. Del resto, ci hanno provato già altri scrittori. Basterebbe citare Amitav Ghosh con “La grande cecità” (Neri Pozza), Antonio Moresco con “Il grido” (SEM editore), ma anche Jonathan Safran Foer con “Possiamo salvare il mondo prima di cena” (Guanda) e Fred Vargas con “L’umanità in pericolo” (Einaudi). Quello che rende ancora più affascinante il ragionamento dell’autore di “Libertà” e “Forte movimento” è il coraggio di ammettere ,con implacabile lucidità, che dovevamo accorgerci nel 2015 del fallimento collettivo sulla possibilità di fermare la catastrofe climatica. Anche se questo non ci deve togliere la speranza. Perché, così ragionando, ognuno di noi smetterebbe di alzarsi al mattino sapendo che presto sara morto.
E, allora, bisogna essere lucidi e motivati. Avere il coraggio di ammettere ad alta voce, ad esempio, che ogni miliardo di dollari speso per finanziare treni ad alta velocità viene sottratto a creare un fondo economico per risarcire i Paesi che verranno inondati dalle acque. Quando si innalzerà il livello dei mari in maniera devastante. Gli stessi soldi potrebbero finanziare futuri aiuti umanitari. Inoltre, ogni megaprogetto dedicato alle energia rinnovabile, che distrugge un ecosistema vivente, riduce la capacità di recupero di un mondo naturale che sta già lottando per la sopravvivenza.
E allora, dice Jonathan Franzen, se troveremo il coraggio di non fingere più, se ammetteremo che il problema delle emissioni sovradimensionate nell’atmosfera non è più risolvibile, potremo concentrarci sul fermare il degrado del suolo e delle acque, l’abuso di pesticidi, la devastazione delle riserve ittiche, la strage continua di specie animali che non riappariranno mai più sulla Terra. “Inoltre – scrive -, molti interventi conservativi a bassa tecnologia (ripristinare le foreste, tutelare le praterie, mangiare meno carne) possono ridurre la nostra impronta ecologica con la stessa efficacia di imponenti trasformazioni industriali”.
Non si può trasformare la speranza in illusione. “Se la vostra speranza per il futuro – scrive Jonathan Franzen – si basa su uno scenario estremamente ottimistico, cosa farete tra dieci anni, quando quello scenario diventerà inattuabile anche in teoria? Darete il pianeta per perso?”. Prendendo a prestito il linguaggio dei consulenti finanziari, lo scrittore propone un portafoglio di speranze più bilanciato. Ovvero, “combattere battaglie più piccole e locali che avete qualche speranza di vincere”.
Tutto si potrà dire di queste visioni proposte da Jonathan Franzen, ma non che non siano forti e chiare. Posto che una guerra totale contro il cambiamento climatico era possibile fino a quando c’è stata la speranza di vincerla, adesso è necessario “fare la cosa giusta per il pianeta”. Ovvero? “Salvare ciò che amate: una comunità, un’istituzione, un luogo selvaggio, una specie in difficoltà. Ogni cosa buona che fate è presumibilmente una protezione contro un futuro più caldo, ma la cosa davvero importante è che è buona oggi. Finché avete qualcosa da amare, avrete qualcosa in cui sperare”.
Jonathan Franzen, oltre a scrivere alcuni tra i libri più belli e importanti del nostro tempo, da anni si occupa di un progetto per la salvaguardia degli uccelli. La sua speranza di salvare la Terra ha un orizzonte preciso.
<Alessandro Mezzena Lona