• 14/12/2020

William Boyd sulle tracce di Nat Tate, il pittore che stregò David Bowie

William Boyd sulle tracce di Nat Tate, il pittore che stregò David Bowie

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La letteratura insegna a diffidare delle verità. Proprio perché, raccontando storie immaginate che affondano le proprie radici nella realtà, funziona come un rito di iniziazione. Svela, insomma, a chi legge, pagina dopo pagina, quanto sia effimero fidarsi della narrazione come centro di gravità imprescindibile attorno a cui costruire il proprio mondo di idee e di convinzioni. Perché se un romanzo è capace di affascinarci al punto tale da spingerci a desiderare che i suoi personaggi, le avventure e le disavventure che mette in scena, entrino a far parte almeno un po’ delle nostre vite, allora non sarà possibile dare maggior credito ad altre affermazioni, ad assiomi ugualmente coinvolgenti. Proprio perché ci appariranno realistici e fasulli esattamente come quelli contenuti nelle opere ideate dagli scrittori.

Ma che  cosa succede se uno scrittore tradisce il patto segreto con i lettori? Ovvero, se un autore affermato e apprezzato di romanzi a un certo punto decide di spacciare le proprie fantasie per dati reali? Il tema è sempre molto affascinante. Qualcuno ricorderà di certo il clamoroso caso di J.T. Leroy. Lo scrittore americano che si dichiarava figlio di una prostituta, e che commosse e coinvolse il mondo della letteratura con romanzi come “Sarah” e “Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa”. A un certo punto confessò di avere ordito un gigantesco tranello. Perché i libri li scriveva la quarantenne Laura Albert, mentre a impersonare in pubblico l’efebico J.T. era Savannah Knoop, sorellastra venticinquenne di Geoffrey Knoop, musicista che da anni conviveva con la Albert.

L’Italia non può dimenticare la truffa delle false teste di Amedeo Modigliani, ideata all’inizio degli anni ’80 da tre buontemponi dotati di martello, cacciavite e un trapano elettrico. E che trassero in inganno fior di studiosi e critici d’arte, pronti a dare credito alla leggenda che il grande Modì, prima di lasciare Livorno per Parigi,  avesse buttato alcune sue sculture nell’acqua melmosa del Fosso Reale.

Ma c’è un altra storia tutta da raccontare. Ed è contenuta in un libro che si legge come un thriller. L’ha scritto William Boyd, nato in Ghana nel 1952, ma da anni residente a Londra, autore di “Ogni cuore umano>”, “Inquietudine”, “L’amore è cieco”. Si intitola “Nat Tate. Un artista americano 1928-1960”. Lo ha tradotto Laura Prandino per l’editore Neri Pozza (pagg. 103, euro 19). Sulla copertina campeggia la figura, in bianco e nero, di un uomo dalla fronte spaziosa e il volto tormentato, che ha attraversato il mondo dell’arte americana degli anni ’50 approdando all’Espressionismo astratto con un certo successo. Togliendosi la vita molto presto, ma diventando un vero e proprio oggetto di culto per le poche opere che gli sono sopravvissute.

William Boyd percorre il breve percorso umano e artistico, durato non più di 32 anni, di Nat Tate con grande enfasi,. Sottolinea il percorso accidentato seguito dal giovane talento. Dalla nascita del New Jersey alla perdita improvvisa dei genitori quand’era un ragazzo. Dalla fortuna di essere adottato da una ricca coppia di signori del Long Island all’ingresso in una scuola d’arte e, poi, all’approdo al milieu artistico del Greenwich Village, a Manhattan, dove Jackson Pollock e Willem de Kooning tracciavano la rotta a un gruppo di nuovi sperimentatori della pittura astratta. E, a corredare questo percorso biografico, non mancano le immagini dei protagonisti del tempo. Oltre ad alcune, pochissime opere dello stesso Nat Tate, che prima di suicidarsi, lanciandosi dal traghetto di Staten Island nelle gelide acque davanti alla Statua della Libertà nel gennaio del 1960, decise di fare un grande falò delle sue tele.

Una storia affascinante. Talmente bella che, leggendola, viene da pensare che un bravo romanziere, come William Boyd, potrebbe costruirci attorno un libro. Infatti, dopo aver raggirato il mondo dell’arte americano negli anni ’90, adesso lo scrittore ha sentito il desiderio di gettare la maschera. Quando ha capito che Nat Tate, che è “una mia creatura”, era “scivolato fuori dalla mia fantasia e aveva assunto vita propria”. Un po’, per restare nell’ambito della letteratura, com’era capitato al dottor Frankenstein con la sua Creatura.

E allora? Semplice. Non restava che scrivere un libro. Rivelando il coinvolgimento, nell’operazione, di una delle più amate rockstar: David Bowie. Che non aveva esitato a dichiarare: “La descrizione che William Boyd fa del procedimento creativo di Tate è così vivida che mi sono convinto che il piccolo quadro a olio che ho acquistato su Prince Street, a New York, alla fine degli anni ’60, sia proprio uno dei suoi perduti Third Panel Triptychs”.

Dopo aver letto “Nat Tate” le domande su che cosa sia credibile e falso, e sul fatto che troppe verità da noi accettate appoggiano su fondamenta assai instabili, si moltiplicano. Forse, questo libro ci aiuterà a credere un po’ meno alla valanga di bugie e notizie  taroccate che ci travolge ogni giorno. Ci spingerà a diffidare dei troppi falsi profeti, piccoli e grandi, che ci circondano. Per rivalutare il potere straniante della letteratura.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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