• 14/04/2022

Matteo Righetto, l’incanto e il mistero nella “Stanza delle mele”

Matteo Righetto, l’incanto e il mistero nella “Stanza delle mele”

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C’è un autore italiano che scrive romanzi “alti” con la forza e il fascino della narrativa di genere. Si chiama Matteo Righetto, fa l’insegnante di Lettere, vive tra Padova e la dolomitica bellezza di Colle Santa Lucia. Da anni, dal suo esordio letterario nel 2012, sta compiendo un percorso di crescita, di affinamento dello stile, di messa a punto della voce con cui racconta storie appassionanti che si confrontato a viso aperto con gli spigoli della vita. Pur senza negarsi la forza, la magia, il mistero di essere qui, nel pianeta più ospitale dell’universo. Liberi di abitare un giardino incantato di cui troppo, spesso, finiamo per non vedere i regali che fa ogni giorno. Albe, tramonti, cieli stellati, boschi che ci permettono di respirare, animali che ci affiancano in silenzio, subendo troppo spesso la nostra malvagità.

Matteo Righetto ha percorso, ormai, un tratto importante del suo essere scrittore. Già da subito, nel 2012, è riuscito a dimostrare con il romanzo di debutto “Savana Padana” (pubblicato da TEA, ma che meriterebbe una nuova edizione) tutto il suo talento. Confermato, poi da quel grandissimo successo de “La pelle dell’orso” (Guanda 2013, trasformato da Marco Segato nel 2016 in un film con Marco Paolini, Lucia Mascino, Maria Paiato e il bravissimo Leonardo Mason). In seguito, lo scrittore padovano è cresciuto ancora con la Trilogia della Patria (Mondadori, 2017-2019). Due anni fa ha raccontato il baratro che si sta aprendo davanti all’umanità, se continuerà a umiliare la Terra, con un romanzo potente: “I prati dopo di noi” (Feltrinelli, 2020)

Chi segue da sempre il cammino letterario di Matteo Righetto sa bene che, nella sua scrittura, nel suo talento di inventore di storie, si incontrano e si fondono due tra le più fruttuose lezioni narrative: quella del grande romanzo americano, di autori seminali come Ernest Hemingway, Cormac McCarthy, ma anche Mark Twain e un straordinario irregolare come Joe L. Lansdale; e quella della scuola veneta con Mario Rigoni Stern, Ferdinando Camon, e poi Goffredo Paride, Luigi Meneghello, Giovanni Comisso, Guido Piovene. Ma anche un bellunese d’esportazione come Dino Buzzati, forse il più limpido esempio di letteratura d’autore di genere.

Romanzo d’autore e letteratura di genere, appunto. Questo incontro, questo compenetrarsi di temi, di stilemi, di suggestioni, di atmosfere, nella scrittura di Matteo Righetto produce la creazione di autentici gioiellini narrativi. Come il suo nuovo libro, “La stanza delle mele” (pagg. 231, euro 18), che Feltrinelli ha distribuito nelle librerie una settimana fa. Difficile dire che si tratta della sua opera più affascinante, visto che ormai ne ha pubblicate parecchie. Certo è che rappresenta il punto d’arrivo di un lavoro narrativo dettato da grande passione, tenacia, costanza, limpida fantasia, volontà di non barare mai con il lettore, coraggio nel saper far convivere temi “alti” e uno stile narrativo accessibile a qualunque tipo di lettore.

“La stanza delle mele” riporta la memoria ai complicati anni ’50. Ak tempo in cui l’Italia stava affrontando una difficile ricostruzione, la ricerca di un’identità democratica, dopo essrsi divisa in una feroce guerra di liberazione. Quando la montagna non era quel parco giochi per ricchi turisti, per sciatori assetati di alte velocità e gitanti disposti a spostarsi al massimo da un confortevole rifugio all’altro. Quando le famiglie vivevano in condizioni di estrema povertà, l’incubo delle due guerre mondiali abitava la memoria delle persone, i ritmi di vita erano dettati dalle dure regole del saper sopravvivere.

Al centro della prima parte della “Stanza delle mele” c’è un ragazzino di 11 anni: Giacomo Nef ha perso entrambe i genitori, vive con i nonni e i fratelli in un maso a Daghè, sulle pendici del Col di Lana nelle Dolomiti bellunesi. E deve confrontarsi, fin da piccolo con. la totale mancanza di amore, con le dure regole imposte dal capofamiglia: il nonno Angelo, che di angelico ha soltanto il nome. Un uomo tormentato dai fantasmi del passato, abituato a farsi rispettare picchiando duro, convinto di poter raddrizzare l’indole da sognatore del nipote con i durissimi ritmi di lavoro che impone la vita contadina.

A segnare la vita di Giacomo, che coltiva la passione per il legno e vorrebbe diventare un bravo scultore, è un episodio avvolto nel mistero. Un giorno, mentre cammina da solo tra gli alberi del Bosch Negher, vede penzolare da un ramo un lungo pezzo di corda. A cui, qualcuno, ha appeso un uomo, ormai privo di vita. il ragazzo prova a tenere tutto per sé quel terribile segreto, ma non parlarne a nessuno gli costa una grande fatica. E allora decide di dire tutto ai suoi compagni di scuola, tra i quali c’è anche la bambina che ama: Teresa.

Perfettamente inutile, però, raccomandare loro che mantengano il segreto assoluto. Infatti, dopo qualche giorno, una delegazione dei capifamiglia di Daghè sale alla malga e pretende che il nonno dia una lezione indimenticabile al ragazzo. Perché non si possono inventare, e diffondere, bugie di quel genere. Non dopo tutti gli orrori che si sono visti e vissuti tra quelle montagne.

Potrebbe finire lì, con una durissima razione di bastonate. Se Giacomo, un giorno, non incontrasse tra gli alberi una donna che è leggenda. La vegia Tina da Tie, come la chiamano a Daghè, è un personaggio che galleggia tra il mito e la realtà. Sarà lei a rivelargli che il Bosch Negher ha sempre nascosto inconfessabili nefandezze perpetrate in tempo di guerra, ma anche quando il fascismo scatenò contro gli ebrei le leggi razziali. Poi, la donna lo esorta a non abbandonare la sua ricerca di verità. A non lasciarsi impaurire da chi pensa di cancellare a bastonate il ricordo di una misteriosa morte violenta.

Giacomo ne dovrà percorrere di strada prima di approdare alla verità. Nella seconda parte del romanzo abbandonerà Daghè, dopo la morte dei nonni, supererà gli anni grigi vissuti in collegio, diventerà uno scultore affermato a Venezia. Fino a decidersi a dare forma con il legno a quello che, nella lingua ladina, chiama il Desconesciü. Il morto impiccato senza nome. Il mistero che ha attraversato tutta la sua vita. L’inquieta presenza che lo condurrà, quando meno se l’aspetta, a guardare negli occhi una storia urticante come quelle che solo la realtà sa costruire.

Ambientato tra montagne, boschi e paesini che sono il nostro paradiso terrestre, “La stanza delle mele” racconta con amore e implacabile precisione un mondo arcaico governato da regole ferree, spesso terribilmente crudeli, quasi sempre utili a non soccombere al freddo, alla fame, alla miseria. Porta sotto gli occhi dei lettori personaggi indimenticabili, vivi, costruiti con nitidi dettagli e ombrose sfumature, sbozzati nel blocco informe della fantasia e poi modellati, raffinati con la magia delle parole. Che, spesso, fanno risuonare la voce della lingua ladina. Il modo di esprimersi dei popoli di quelle valli, che ha rischiato di farsi risucchiare dall’oblio.

Matteo Righetto si muove in questo mondo con la forza, l’umiltà, la cura di chi lo ha avvicinato, esplorato, analizzato e studiato, fino a capire i suoi pensieri più profondi. I desideri e le paure, i silenzi e le frasi ruvide dette a rotta di collo, con la voce incrinata dall’abitudine a parlare meno che si può.

“La stanza delle mele” è, senza ombra di dubbio, uno dei migliori romanzi d’autore di genere usciti in questo scorcio di terzo millennio. E il suo autore Matteo Righetto ha tutte le carte in regola per aspettarsi un segnale forte dalla giuria di qualche importante premio letterario. Sarebbe il modo giusto per riconoscere la sua serietà, l’originalità, la passione e il talento nell’inventare storie e, poi, scriverle.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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