Troppo spesso i lettori scelgono il romanzo sbagliato. Perché si lasciano ipnotizzare dal titolo. E, poi, si trovano a leggere una storia che corrisponde solo in parte a quella che immaginavano. Ecco, “Volevo essere Madame Bovary” può suggerire molte traiettorie sbagliate sul quinto lavori di Anilda Ibrahimi. Far immaginare, ad esempio, una trama leggera, addirittura frivola, pronta a scivolare sulla battuta facile, intenta a raccontare un microcosmo femminile dove regna l’illusione che l’amore fedifrago sia una delle cose più divertente da praticare.
Chi conosce Anilda Ibrahimi, ha letto i suoi quattro romanzi precedenti (“Rosso come una sposa”, “L’amore e gli stracci del tempo”, “Non c’è dolcezza”, “Il tuo nome è una promessa”, che nel 2017 ha vinto il Premio Rapallo Carige), snon si lascerà ingannare. Perché a bene che la scrittrice nata a Volona in Albania, che dal 1997 vive in Italia, non è mai andata a caccia del successo facile. E quel quel titolo della sua nuova opera, “Volevo essere Madame Bovary” (Einaudi, pagg. 224, euro 17) , nasconde un impasto narrativo che contiene i registri del comico e del tragico, che fa ridere e pensare, che formula riflessioni eretiche e non si fa mai catturare dalla tentazione di dire quello che la gente si aspetta da un narratore politicamente corretto.
Forse, “Volevo essere Madame Bovary” avrebbe potuto intitolarsi, piò opportunamente, “Compagna Bovary”. Perché, in realtà, racconta il groviglio complesso di sentimenti e delusioni, di aspettative e sogni mai realizzati, di nostalgie e messe a punto con il passato, fatto dalla protagonista Hera Merkuri. Una donna nata in Albania, il Paese dove il socialismo era assai più reale che in altre parti del mondo. Che ha trovato in Italia il suo centro di gravita permanente. O soltanto apparente? Sposata con Stefano, mamma felice di due figli, artista affermata in campo internazionale, donna raffinata, elegante, corteggiata, dentro di sé sente di non avere fatto i conti con molte cose. Il proprio passato, il rapporto con il regime che pretendeva dalle donne una produttività pari a quella degli uomini, e che esorcizzava la loro bellezza, rinfacciandola come fosse una colpa. Soprattutto, quel sogno coltivato sui libri fin da bambina di assomigliare un po’ alle eroine dei romanzi. Personaggi che sembravano irridere, con i loro amori avventurosi e liberi, quella cappa pesantissima di moralismo e di pregiudizi inoculati nella gente dal regime. Una sorta di sarcofago che chiudeva le ragazze albanesi dentro un cliché femminile asfitico. Terribilmente stereotipato, impossibile da accettare.
E allora? Hera, “l’artista che scava nei ricordi e ricostruisce l’abbandono della propria terra”, decide che è arrivato il momento di fare i conti con se stessa, il proprio corpo, il desiderio erotico mai esplorato fino in fondo. Ma anche con i ricordi, con quello che si è lasciata alle spalle. E che ha chiuso dietro una porta della sua memoria, mai più aperta. Perché “chi diventa orfano da piccolo ricorda i genitori per sempre giovani. Non li vede invecchiare, non assiste alla loro mente annebbiata dalle malattie, non deve prendersi cura del loro corpo consumato”. Proprio questo è accaduto alla grande artista: “Mentre lei se ne andava, si sposava e aveva dei figli, la sua terra rimaneva un luogo fermo nel tempo della memoria”.
E solo adesso può andare alla ricerca di se stessa, in un andirivieni continuo tra il passato e il presente. Perché l’Albania, per Hera, è “diventata un’estranea”. Tanto che, quando ritorna nel suo Paese dopo tantissimi anni, il tabaccaio che sta all’angolo sotto l’albergo le dirà: “Come ha imparato bene la nostra lingua”. Complimento perfetto da fare a una straniera che ha studiato l’albanese.
Ma, in fondo, la situazione non è poi così bizzarra, perché Hera si sente davvero cittadina di un altrove. Anche nel rapporto con il suo amante Skerd, un giovane uomo che viene dalla sua stessa terra, anche se è riuscito a fare fortuna in Italia. “Forse al loro terzo o quarto appuntamento, Skerd le aveva detto che era impazzito per lei dal primo momento, da quando l’aveva vista sul palco”. Ma lei aveva esitato a lasciarsi travolgere dalla passione perché “sapeva che un uomo della sua terra, per quanto la potesse idolatrare, in cuor suo l’avrebbe sempre giudicata”.
È dentro questa matassa di rimandi al passato e di fughe nel presente che si consuma l’amore fedifrago di Hera, in un dialogo costante, tormentoso, perturbante, con la se stessa ragazzina, poi giovane donna. Con quell’impulso irrefrenabile a ribellarsi al moralismo socialista della madre, che come tutte le altre donne considerava la bravissima sarta Linda una donna di malaffare. Una sorta di “adescatrice di ragazzine arrivata in città per ammaliare le adolescenti ingenue e portarle in chissà quale cattiva strada”. Una Mata Hari sotto copertura nel Paese che ha insegnato alle donne a rinnegare se stesse. A pensare più alla morte, quella gloriosa, per la Patria, che all’amore, al sesso, alla realizzazione dei propri desiderri. E che ha visto scomparire perfino Lui, il capo supremo, dopo aver creduto per anni che se “qualcuno dei nostri numerosi nemici ci avesse attaccato, sarebbe morto per salvare tutti noi”. Invece, Enver Hoxha è “morto nel letto di casa su, malato da anni”.
In fondo, Hera ha sempre sognato di essere come Linda: “Una donna che mina il socialismo insegnando alle ragazze a essere ciò che non potranno mai diventare”. Una ribelle, insomma, capace di irridere le regole strette del patriarcato, ma anche di farsi beffe della rassegnata sottomissione delle donne. Peròla realtà, ahimè, è assai più prosaica del fascinoso andamento dei romanzi di Flaubert, di Balzac o Tolstoj. La storia d’amore malandrina con Skerd si rivelerà, infatti, una formidabile macchina del tempo per fare i conti con i buchi neri del passatoi. Ma, al tempo stesso, un deludente viaggio nelle fanciullesche ritualità maschili. Dove incombe sempre l’ombra della moglie tradita Danata, che gli organizza ogni dettaglio della vita in funzione di un corretto equilibrio tra qualità delle cose scelte ed equo prezzo pagato. Dove una delle frasi più erotiche che Hera si sente regalare affonda le radici nei modi di dire tipicamente albanesi. Perché un giorno l’amante si spingerà a confessarle che “ci sono momenti in cui intravedo perfino un futuro per noi due”. Lui, insomma, “vorrebbe prenderla”, ma soltanto “quando mia figlia sarà grande”. E quell’intenzione di “prenderla” riannoda i fili con una tradizione che sviliva le donne a beni di cui impossessarsi. A inanimati oggetti da prendere e portare a casa.
In “Volevo essere Madame Bovary”, dolente e pirotecnico romanzo, pensoso e pieno di vita (“Da piccola Hera ha vissuto le code esasperanti per accaparrarsi i beni di prima necessità: le sveglie alle quattro e le ore in attesa con il tesserino del razionamento in mano non le scorderà mai. Quella privazione l’ha segnata per sempre: anni di rigore e austerità comunista hanno generato in lei una frustrazione che oggi trova una valvola di sfogo in un consumismo esasperato, vestiti e borse di lusso che potrebbero sfamare interi villaggi della sua infanzia. È affetta da degenerazione capitalistica”), Anilda Ibrahimi non dimentica di raccontare il tema dello sradicamento non solo fisico, ma linguistico, mentale. Quando, in una scena bellissima, il figlio Sirio le chiede come si dice “ti amo” in albanese, ascoltate quelle parole a lui straniere, subito dopo si rammarica di non saperle ripetere. Ma poi, ai compagni di scuola spiegherà che “mia madre è nata in un’altra lingua e ora vive in italiano”.
“Per cosa combattono le donne se poi sono sempre l’una contro l’altra?”, si chiederà Hera verso la fine di questo suo corto viaggio in bilico tra eros, l’inconscio e la memoria. E non le basterà ricordare che sua nonna “era una collaborazionista del patriarcato”. Perché la vita non si può raccontare solo separando il bianco dal nero. Ci sono miliardi di sfumature tra l’amore e il disamore, tra la libertà e le costrizioni. E, per fortuna, ci sono tante donne come Hera Merkuri, che non hanno le risposte già pronte per tutto. Ma le vanno a cercare, vivendo. Perché è nell’interrogarsi, nello scandagliare la palude delle proprie insicurezze, nel guardare negli occhi quello che preferiremmo non vedere, che sta una delle possibili vie da seguire.
Questo quinto romanzo di Anilda Ibrahimi è il punto d’arrivo di un percorso letterario importante, lin eare, fedele a se stesso. “Volevo essere Madame Bovary” meriterebbe un premio altrettanto importante. Se, per una volta, venisse riconosciuto il valore del romanzo, non altri dettagli del tutto secondari. Che con la scrittura non c’entrano proprio niente.
<Alessandro Mezzena Lona