Non c’è dubbio che il Premio Campiello sarà costretto, d’ora in poi, a fare delle scelte precise. Altrimenti rischia di non farsi capire, di involversi, di perdere il contatto con i lettori e rinchiudersi in una nicchia riservata a pochi. La questione è molto semplice, e al tempo stesso complicata. Perché negli ultimi anni sembra che ci sia una sempre più marcata lontananza tra la Giuria dei Letterati, che a fine maggio a Padova sceglie la cinquina dei finalisti, e quella cosiddetta popolare dei trecento anonimi votanti, che poi a settembre scelgono il vincitore a Venezia.
Prendiamo le scelte più recenti che riguardano la cinquina di finalisti del 2023. Sabato 16 settembre, sul palcoscenico del Teatro La Fenice di Venezia, verrà proclamato il vincitore dell’edizione 2023 del Premio Campiello. E sarà, una volta di più, una vera roulette. Dove il più votato dai Letterati rischia di finire all’ultimo posto della classifica finale decisa dalla giuria popolare.
La Giuria dei Letterati ha deciso di mandare in finale al Premio Campiello cinque libri assolutamente raffinati e di qualità. Ma che, a leggerli bene, hanno ingenerato in molti lettori inquiete domande. Facciamo subito un esempio: Benedetta Tobagi, che ha alle spalle opere fortunate e apprezzate da “Come mi batte forte il tuo cuore” a “Piazza Fontana. Il processo impossibile”, ha scritto senza dubbio un gran bel testo. Perché ne “La Resistenza delle donne” (Einaudi, pagg. 368, euro 22) è riuscita a raccontare la guerra di liberazione dal nazifascismo dal punto di vista femminile facendo convivere l’esattezza e la documentazione della ricercatrice storica, il gusto narrativo di raccontare storie di personaggi tra realtà e immaginazione, il piglio civile di chi vuole sottolineare quanto difficile fosse per le “brave mogli” o per le “ragazze ribelli” farsi accettare nelle formazioni che combattevano contro la dittatura.
Eppure? Il libro rimane, pur sempre, un saggio, con tanto di documentatissima e puntuale bibliografia. Un raffinato esempio di quella che potremmo chiamare Storia narrata. Scritto da un’autrice come Benedetta Tobagi che ha conseguito un Ph.D in Storia all’Università di Bristol e che si occupa in maniera approfondita delle vicende dello stragismo, cercando di fare luce sugli episodi più controversi del secondo dopoguerra in Italia. Certo, la Giuria dei Letterati ha ribadito più volte di apprezzare la scrittura meticcia. Di voler valorizzare un certo contemporaneo crossover tra generi. Una ricerca, insomma, che vada un po’ al di là della costruzione del romanzo-romanzo.
Impresa senza dubbio lodevole. Eppure? Andiamo avanti Silvia Ballestra ha scritto, senza ombra di dubbio, uno dei libri più belli seminati nel suo percorso letterario, che pur può contare su titoli forti come “Compleanno dell’iguana” e “La guerra degli Antò”. E “La Sibilla” (Laterza, pagg. 237, euro 18), una sorta di controcanto al suo precedente “Joyce L. Una vita contro”, potrebbe tranquillamente vincere quest’edizione del Campiello. E lo meriterebbe in pieno. Perché riporta in scena quella donna straordinaria che è stata Joyce Lussu: scrittrice raffinata, intellettuale impegnata in prima fila nella durissima lotta contro il fascismo, moglie di Emilio Lussu che non ha mai accettato di annullarsi nell’ombra imponente del marito, femminista convinta e illuminata, esponente della sinistra italiana che mai ha accettato le compromissioni con il Potere.
Anche in questo caso, però, non possiamo parlare di romanzo. E nemmeno di contaminazione tra i generi. Perché “La Sibilla” è una ricca, appassionata, personalissima biografia di Joyce Lussu, in cui Silvia Ballestra si concede, di tanto in tanto, delle personali digressioni sui suoi incontri con la scrittrice. Ma, soprattuttoi, quello che affascina del libro è l’appassionante viaggio nella storia d’Italia raccontato, quello sì, con il talento di una bravissima narratrice. Dove i personaggi della lotta al fascismo non sono figurine da presepe laico, ma figure tridimensionali che ardono ancora di una vita piena di sogni, speranze per il futuro e incrollabile fede in un’Italia libera e piena di ideali.
Il libro che, più di altri, fa del crossover tra i generi un punto di forza, del meticciare gli stili e i linguaggi della scrittura, è “Diario di un’estate marziana”. Non a caso, a scriverlo è uno dei migliori talenti della generazione degli autori sessantenni italiani: Tommaso Pincio. Nom de plume di Marco Colapietro, in omaggio alk grande autore statunitense Thomas Pynchon, che ha regalato ai lettori libri molto belli come “Lo spazio sfinito”, “La ragazza che non era lei”, “Hotel zero stelle”.
Il suo percorso, nel “Diario di un’estate marziana” (Giulio Perrone Editore, pagg. 177, euro 16), maschera l’omaggio a un grande irregolare della letteratura e del cinema come Ennio Flaiano, una sorta di “Marziano a Roma” come recita il titolo di un suo celebre lavoro scritto per il teatro, confrontandosi con la sfuggevolezza metafisica della Città eterna. Nei fogli di diario di Tommaso Pincio, nel suo non riconoscersi più nei luoghi dove è nato e cresciuto, nel girovagare tra citazioni letterarie e cantieri che trascinano avanti i lavori all’infinito, tra ricordi e battute attribuite all’autore di “Tempo di uccidere”, emerge un testo raffinatissimo, ibrido, affascinante, che certamente invoglia a riaprire le pagine di Flaiano, a confrontarsi con un autore sfuggente, che si sentiva umiliato per avere vinto il Premio Strega con la sua opera prima.
Un’operazione letteraria di classe, insomma, che richiede però una preparazione alla lettura abbastanza precisa. Non a caso lo satesso Tommaso Pincio si sente in dovere di allegare un’ampia bibliografia di supporto, per chi non si accontenterà di concludere il suo viaggio tra queste pagine.
Di premi, Filippo Tuena ne ha vinti parecchi nella sua carriera di scrittore. Basterebbe citare i più importanti: il Grinzane Cavour per “Tutti i sognatori”, il Bagutta per “Le variazioni Reinach”, il Viareggio per “Ultimo parallelo”. Al Campiello, è arrivato per la prima volta in finale con “In cerca di Pan” (nottetempo, pagg. 163, euro 18). Un libro che ripercorre un episodio già raccontato dagli autori dell’antiucxhità: la morte del dio Pan. Episodio perturbante, capace di dettare allo psicoanalista americano James Hillman parole illuminate, nel suo “Saggio su Pan”, che riallacciano un filo sottile tra le religioni panteiste e quelle monoteiste.
Scriveva Hillman: “Pan morì quando Cristo divenne sovrano assoluto, così che il diavolo non è altro che Pan attraverso l’immagine cristiana. La morte dell’uno significa la vita dell’altro in un contrasto chiaramente espresso nelle iconografie. Pan nella grotta, Cristo sul monte; l’uno ha la musica, l’altro la Parola”.
“In cerca di Pan” propone al lettore un viaggio verso l’Oriente. Una strana crociera, sospesa tra lo spazio reale e l’impalpabile eterno ritorno del tempo, dove il narratore si trova a condividere la crociera in mare con una donna che potrebbe nascondere un segreto inquietante. E che, nel suo apparire così sfuggente, potrebbe incarnare in sé l’archetipo del dio dato per morto. Nel testo di Tuena, che si appoggia pure lui su una non eccessiva bibliografia, le parole si accompagnano spesso a una serie di immagini in bianco e nero. Piccoli dettagli di un percorso iniziatico seminati qua e là per tracciare la rotta, e svelare segreti legati ai culti misterici.
Per ultimo abbiamo lasciato il romanzo di Marta Cai. Non perché “Centomilioni” (Einaudi, pagg. 137, euyro 14,50) abbia meno valore degli altri libri finalisti. E nemmeno perché, a parte i racconti “Enti di ragione”, sia da considerare l’opera di debutto della scrittrice nata a Canelli. Visto che l’anno scorso il Premio Campiello è andato proprio a un esordiente come Bernardo Zannoni con il suo fortunato “I miei stupidi intenti”. Quanto, piuttosto, perché questo tra i cinque finalisti è l’unico romanzo-romanzo. Seppure scritto con un piglio modernissimo, una lingua stratificata, ricca e spesso sbarazzina, la voglia di raccontare una storia che galleggia a metà tra lo sguardo spietato sul reale e il desiderio di capire le ragioni di un amore impossibile. Che affonda le radici in una situazione di disagio e silenziosa vessazione attuata nel contesto familiare della protagonista.
Marta Cai, ispoirandosi a un fatto di cronaca, porta sul palcoscenico del suo romanzo la figura di una donna, Teresa, che a 47 anni, con una carriera da insegnante d’inglese nell’Istituto per ripetenti, continua a vivere come una bambina mai cresciuta: “Vivo come le sogliole, sul fondale” ammetterà nel suo diario segreto.. Figlia per sempre, completamente sottomessa ai voleri di una madre bizzosa e dispotica che non si rassegna a lasciarla andare per la sua strada. E di un padre troppo evanescente per cambiare i disequilibri della famiglia.
Teresa finira per costruirsi una storia d’amore del tutto mentale e impossibile. Quella che la porta a fantasticare su Alessandro, un ex allievo che gioca con i suoi turbamenti alimentando la speranza che un giorno la storia di passione tra di loro possa trovare un suo compimento.
È sempre molto difficile sbilanciarsi sulle scelte della giuiria popolare del Premio Campiello. Eppure, Marta Cai potrebbe giocarsi i suoi quattro assi perela vittoria e contenderla a Silvia Ballestra. Proprio in virtù del fatto che,se i 300 lettori amano ancora farsi raccontare una storia che non sia presa dalla Storia, potrebbero rispecchiare il loro desiderio di narrativa pura proprio in un romanzo come “Centomilioni”.
In ogni caso, resta il fatto che il Premio Campiello una scelta più precisa, prima o poi, la dovrà fare. O decide di diventare una manifestazione culturale di nicchia, per lettori raffinatissimi, che sposta appena il mercato della vendita di libri. E continua a snobbare autori di sicuro valore come Antonio Moresco, Omar Di Monopoli, Antonella Lattanzi, Hans Tuzzi, la sorpresa del 2023 Gian Marco Griffi (clamorosamente escluso dalla cinquina dello Strega e nemmeno nominato dai giurati del Campiello), Romana Petri, Matteo Righetto, ma anche più giovani come Silvia Bottani, Giuliana Altamura e Orso Tosco, oltre a tanti altri. Oppure ritorna a giudicare la produzione letteraria attuale senza rinchiudersi dentro teoremi che dettino le regole del romanzo contemporaneo perfetto. E non si accorge del valore e della bellezza di tante opere italiane che, chissà perché, non entrano mai nel mirino delle loro preferenze.
Del resto, come dimenticare che nessun premio letterario ha riconosciuto in “Works” di Vitaliano Trevisan uno dei romanzi più importanti e belli degli anni Duemila? Diceva Giuseppe Petronio, il grande storico della letteratura, autore de “L’attività letteraria in Italia”, che chi non sa vivere i libri della propria contemporaneità rischia di escludersi dal tempo stesso in cui vive. Del resto, non si può dimenticare che è stato proprio lo studioso nato a Cagliari nel 1909, e morto Roma nel 2003, a portare all’attenzione degli studi universitari quella che, fino agli anni Settanta, era considerata solo Trivialliteratur. Letteratura di massa, di consumo. “Ma Georges Simenon, allora, dove lo collochiamo?”, si chiedeva spesso. con un poizzico di beffarda inquietudine. Aggiungendo che lo stesso Carlo Emilio Gadda di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” poteva essere confuso con gli scrittori di genere. E, proprio per questo, considerato un parente minore dei grandi autori.
Da poco è uscita una raccolta di saggi, a cura di Giuliana Benvenuti che svolge le sue ricerche per l’Università di Bologna, intitolato “La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità” (Einaudi, pagg. 332, euro 24). In una serie di interventi storico-critici vuole fare il punto sulla narrativa contemporanea in rapporto al mercato editoriale e alla diffusione dell’informazione libraria sui canali digitali. Accanto ai Premi Nobel José Saramago, John Maxwell Coetzee e Orhan Pamuk, non mancano autori che possono assolutamente essere considerati “di consumo” come Stephen King, Murakami Haruki, J.K Rowling. Ma anche l’Umberto Eco di quel “long seller transmediale” che è stato “Il nome della rosa”, la Margaret Atwood dei “Racconti dell’ancella”, tenebrosa preveggenza di un possibile futuro diventata in fretta successo commerciale grazie alla serie televisiva. Imopossibile ignorare, poi, il fenomeno dell’enigmatica Elena Ferrante, che qualcuno vorrebbe candidare al Nobel per la quadrilogia de “L’amica geniale”. E che, in giro per il mondo, viene già considerata come la miglior scrittrice (scrittore?) del nostro Paese.
E, allora, anche le giurie dei premi dovrebbero chiedersi se è giusto continuare a dire che il romanzo ha, ormai, poco da offrire di originale. E se davvero, come sostiene Gianluigi Simonetti nel suo saggio “Caccia allo strega”, non siano proprio loro, i premi letterari, a essere autoreferenziali. Chiusi dentro i propri confini angusti. Incapaci di essere al servizio della letteratura. Perché insistono a elaborare un teorema, tutto da dimostrare, che li porta a trascurare libri belli, eppure lontani anni luce da quel teorema.
Ma se così è, ben vengano i libri di qualità che, di quel teorema, si fanno beffe.
<Alessandro Mezzena Lona