• 27/01/2018

Catherine Dunne: “Quanto coraggio devono avere le donne per vivere”

Catherine Dunne: “Quanto coraggio devono avere le donne per vivere”

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Quando scrive, Catherine Dunne non regala mai illusioni. Non accarezza i suoi personaggi femminili con false speranze e sogni impossibili. Non mette al loro fianco uomini perfetti, destini al latte e miele, amori da sogno. No, la scrittrice di Dublino, che ha debuttato nel 1997 con “La metà di niente”, centrando subito un successo planetario, preferisce scavare nel pozzo profondo del dolore. Guardare la realtà in faccia, mettere a nudo le complesse dinamiche che covano sotto la sorniona quotidianità della vita familiare. Raccontare la vita, insomma, senza cercare facili scorciatoie.

Nel suo nuovo romanzo “Come cade la luce”, tradotto da Ada Arduini per Guanda (pagg. 365, euro 18,90), Catherine Dunne rilegge il mito di Fedra raccontando il destino della famiglia Emilianides, scappata da Cipro dopo il golpe del 1974 e approdata in Irlanda. Profughi con scarsissima voglia di piangersi addosso, pronti anzi a rimboccarsi le maniche e a cercare di integrarsi il più in fretta possibile, Phillida e suo marito dovranno fare presto i conti con la morte del fragile secondo figlio Mitros. Anche se saranno le due ragazze, prima Alexia, ma soprattutto Melina, a dover fare appello a tutto il loro coraggio per tenere dritta la barra della loro vita. Soprattutto quando capiranno che un amore, molto spesso, non è per sempre e che la felicità, o anche soltanto la sua pallida ombra, bisogna andarsela a cercare. Sfidando le regole imposte dalla società e dalla famiglia.

“Da tempo volevo scrivere una trilogia che riportasse alcuni miti greci nella realtà del nostro tempo – spiega Catherine Dunne, che è ritornata a Milano come ospite della sesta edizione del Festival Writers -. Due anni fa è uscito ‘Un terribile amore’, in cui il punto di riferimento era la storio di Agamennone e Clitennestra e l’ambientazione si divideva tra Cipro e l’Irlanda. Quando si è trattato di mettere mano a ‘Come cade la luce’ ho pensato che fosse giusto confermare gli stessi palcoscenici, facendo scappare la famiglia Emiliadines da Cipro, dopo il colpo di Stato del 1974, e spingendola a approdare proprio in Irlanda”.

Pensava ai tanti disperati che fuggono oggi dalla loro terra, mentre scriveva?
“No, non volevo entrare troppo nel nostro presente così complesso. Mi serviva semplicemente una famiglia di outsider da mettere al centro della storia. Perché, in realtà, mi è sempre interessato il tema dell’emigrazione. Quel sentirsi sradicati dalla propria terra. Non a caso ho dedicato proprio uno dei miei libri non narrativi, ‘Un mondo ignorato’, agli irlandesi emigrati negli anni ’50 e al loro sentirsi comunque lontani da casa anche se poi, nei nuovi posti dove si trasferivano, riuscivano a rimettere insieme la famiglia, i ricordi. Però restando sempre outsider, sradicati”.

Nei suoi romanzi sono sempre le donne a risolvere i problemi…
“Le donne hanno una responsabilità forte: devono trovare il coraggio di gestire la propria vita. Compito che, peraltro, dovrebbe spettare a tutti noi. Maschi e femmine. In ‘Come cade la luce’ volevo soprattutto mettere in evidenza il fatto che le donne devono affrontare sempre il giudizio, l’approvazione della società, della famiglia, ogni volta che decidono di fare qualcosa. E spesso fanno una fatica terribile a conquistare la propria indipendenza. Non voglio rivelare aspetti importanti della storia, però…”.

Qualcosa bisogna dire?
“Sì, per esempio che una donna deve rischiare tutto, deve andare incontro perfino alla possibilità di essere emarginata, cancellata dalla sua stessa famiglia, se vuole non dico creare per sé la felicità, che forse non esiste, ma almeno per dare alla propria vita un significato forte”.

Una sorta di roulette: o si vince o si perde tutto?
“Una decisione del genere provoca attorno a sé il caos totale. E Melina, la figlia più giovane della famiglia Emilianides, lo proverà sulla propria pelle. Ma è proprio questo che mi ha attratta nel mito di Fedra, alla base del mio nuovo romanzo. Ovvero, il momento in cui chi crede che la propria vita sia priva di un significato compiuto accetta di mettere in gioco tutto. Gli affetti, il lavoro, i rapporti con i propri cari. Se in più è donna, farà i conti con la totale diffidenza della società nei suoi confronti. Del resto, il mio personaggio scandisce fin dall’infanzia il proprio divenire con una serie di sfide vinte e perse. Di rotture nei confronti di imposizioni soffocanti”.

Quando muore suo figlio, Phillida reagisce dando una svolta alla propria vita. È andata così anche per lei, quando ha perso il suo secondo bambino?
“Ho reagito più o meno come Phillida. Anzi, le ho regalato la mia terribile esperienza. Fino a portarla a prendere la patente, a uscire di casa per fare qualcosa di utile. Anche perché, se ti lasci invadere dal dolore, lui finirà per paralizzarti. Per impossessarsi di te. Arriva il momento in cui devi prendere una decisione: vuoi lasciarti distruggere dall’assenza di tuo figlio, dalla tristezza infinita? Io, come la mamma del romanzo, ho detto no. Sono ripartita piano piano, raccogliendo per strada i frammenti di me stessa. Fino a quando il lavoro ha ricominciato a essere al centro dei miei pensieri, del mio tempo”.

È stato facile pubblicare “La metà di niente”, il suo primo romanzo, un successo pazzesco?
“Scrivevo da tanti anni, ma non lo dicevo a nessuno. All’inizio mi cimentavo con le poesie, con i racconti. Quando ho deciso di provare con il romanzo, non ero assolutamente in grado di dire se fosse buono, discreto o del tutto pessimo. Perché non siamo noi i giudici più obiettivi del nostro lavoro. Così ho pensato di rivolgermi a Roddy Doyle, l’autore dio “Paddy Clarke ah ah ah!”, un amico prima ancora che un grande scrittore. Lui sospettava che stessi lavorando alla storia e mi ha convinta a fargliela leggere”.

E lui?
“È stato fantastico. Perché lo ha letto subito e lo ha amato subito. Poi, da lì, pubblicare ‘La metà di niente è stato facile”.

James Joyce: un mito vivo, o qualcosa di ingombrante, per l’Irlanda?
“Il mito c’è tutto e non si discute. Però l’Irlanda, da allora, ha fatto tanti passai avanti. Molti scrittori di oggi  sono riconoscenti a James per quello che ha dato alla letteratura, molti altri no. L’aspetto che a me lascia perplessa è come, ormai, Joyce sia diventato un’attrazione turistica del nostro Paese”.

Quante le ha cambiato la vita il successo?
“Me l’ha cambiata completamente. Dopo vent’anni passati a insegnare ho potuto dedicarmi completamente alla scrittura. C’era solo un aspetto che mi angosciava. Temevo, infatti, che ‘La metà di niente’ fosse l’unica storia che mi portassi dentro. Così, nel secondo libro ho voluto raccontare tutta un’altra vicenda. Per dimostrare, prima di tutto a me stessa, che sapevo e potevo scrivere altro”.

E se le chiedessero di trasformare uno dei suoi romanzi in un film?
“In diverse occasioni ci siamo andati vicino. Ma il mondo del cinema è ancora più complesso di quello dell’editoria. Così, ogni volta, subentrava un problema nuovo per bloccare il progetto: o mancavano i soldi, oppure il regista si tirava indietro. Credo, in ogni caso, che sia sbagliato considerare un film la trasposizione fedele di un libro sul grande schermo. Perché sono opere profondamente diverse. Per questo se coccolo i romanzi come i miei bambini, così mi rendo conto, al tempo stesso, che dovrò staccarmene completamente qualora dovessero approdare al cinema. Altrimenti subentra una delusione fortissima. Come capita a molti miei colleghi, incapaci di prendere le distanze”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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