• 10/03/2018

Atiq Rahimi: “La libertà è scritta nel corpo”

Atiq Rahimi: “La libertà è scritta nel corpo”

Atiq Rahimi: “La libertà è scritta nel corpo” 480 640 alemezlo
Il centro di gravità, per Atiq Rahimi, è un concetto astratto. Perché l’idea di esilio, di lontananza, di erranza, ha messo radici dentro di lui molto presto. Nato a Kabul nel 1962, arrivato in Francia a poco più di vent’anni, dove ha poi ottenuto l’asilo politico, quando racconta se stesso dice di essere nato in India, incarnato in Afghanistan e reincarnato in Francia. Tanto che, più che alla sua lingua madre, più che all’idioma dell’ospitalità francese, imparato in fretta e molto bene, ha elaborato un modo di esprimersi tutto suo. Tramite la callimorfia: un’elaborazione, cioè, dell’ostica calligrafia, studiata da ragazzo, che riesce a esprimere le tracce nascoste dei corpi con i segni. Un personalissimo alfabeto, insomma, dove le parole incarnano gli stati d’animo, gli atteggiamenti, i pensieri.

Un piccolo assaggio di callimorfia si trova, adesso nella “Grammatica dell’esilio”, il libro di Atiq Rahimi che Ester Borghese ha tradotto per Bottega Errante Edizioni (pagg. 173, euro 13). Una sorta di autoritratto in pubblico, il racconto della ricerca di un’identità, che segue lo scrittore nella sua infanzia a Kabul, poi nel primo esilio a Delhi, successivamente nel lungo viaggio fino all’Europa. Con la scoperta di un mondo così diverso, eppure in fondo così simile, a quelli incontrati fino a quel momento.

Di questo e di altri libri, di film e di fotografia, ma anche di musica e filosofia, lo scrittore parlerà a Pordenone, che quest’anno lo ha voluto mettere al centro, da sabato 10 marzo, dell’edizione 2018 di Dedica.

Per la Francia, e poi per l’Europa e il mondo intero, Atiq Rahimi è diventato un caso letterario all’inizio del terzo millennio. Quando un editore importante come Pol, che nel suo catalogo ha i capolavori di Marguerite Duras e Georges Perec, si è innamorato di un libricino: “Terra e cenere”. Storia durissima e commovente di un vecchio e un bambino che perdono tutto nell’Afghanistan invaso dalle truppe sovietiche. E che, insieme, devono cercare un senso alla loro nuova vita, terribile e apparentemente inutile. Da lì, per lo scrittore di Kabul la marcia trionfale verso il successo è stata piuttosto veloce. Visto che, dopo “La casa del sogno e del terrore” e “Un’immagine del ritorno”, il suo strepitoso romanzo “Pietra di pazienza” ha vinto il più importante premio assegnato dai francesi: il Goncourt.

E se “Pietra di pazienza” è il dialogo impossibile tra una moglie ancora giovane e bella e il suo marito morente, che sognava di diventare un martire della guerra infinita in Afganistan, ma anche l’urlo di ribellione del mondo femminile nei confronti del mondo musulmano, “Maledetto Dostoevskij” si rivela come uno dei più intelligenti e ispirati omaggi alla letteratura del Vecchio Continente.  E, al tempo stesso, uno sguardo impietoso sull’Islam ottuso e retrogrado, ancorato a stereotipi religiosi che gli impediscono di uscire dalle tenebre dell’oscurantismo.

“La callimorfia è in perfetta sintonia con le altre vie che mi permettono di collegarmi con la creatività – spiega Atiq Rahimi, scrittore, regista, fotografo, che sarà protagonista di Dedica a Pordenone fino al 17 marzo -. Io vedo in questo modo di esprimermi una linea di continuità con i miei romanzi, i film, le fotografie. La cosa che la rende così importante, per me, è la riflessione sul corpo umano. È un continuo andirivieni, un’andata e ritorno senza fine tra scrittura, corpo e immagine”.

Nei suoi libri il corpo è al centro delle storie: in “Pietra di pazienza” soprattutto. Ma le religioni monoteistiche lo hanno sempre voluto separare dall’anima. Perché?

“Nella lingua persiana c’è una parola che contiene, insieme, i concetti di corpo e anima. Nella poesia dell’Afghanistan, quasi tutti gli autori la usano in continuazione. Ma bisogna fare attenzione, perché può assumere anche significati ambigui. Se io, ad esempio, leggo i testi del grande Rumi e interpreto quella parola, all’interno del suo testo, in senso spirituale, posso pensare che sia un poeta mistico. Altrimenti scambierò la sua opera per qualcosa di profondamente erotico. Ma è interessante vedere come anche nella lingua di ogni giorno può assumere significati interessanti”.

Per esempio?

“Se incontro un amico e voglio salutarlo con affetto, caro Giovanni, al suo nome abbinerò proprio quella parola che significa corpo e anima insieme. Un termine apparentemente banale, ma che ha una carica filosofica fortissima. Il fatto che le religioni monoteiste abbiano alzato questa barriera tra corpo e anima, secondo me, è staro l’inizio, l’innesco di una catastrofe. Ancora prima, nell’antica Grecia, nel pensiero di Platone si trova già questa chiara dicotomia. Le cose peggiorano ancor di più, però, quando dal terreno del sacro passiamo a quello politico”.

In che senso?

“Nel senso che assistiamo a una messa al bando del corpo dalla società. Il problema è che il nostro corpo deperisce, invecchia, si corrompe. E questo ci spaventa. Ci costringe a inventare un modo per consolare noi stessi e gli altri. Quale? Semplice: inventando l’idea di un’anima immortale, che possa sopravvivere al corpo mortale. Eppure, se torniamo indietro nel tempo, ci rendiamo conto che non è sempre stato così. Il buddismo, ad esempio, non cercava di separare il corpo e l’anima. E nemmeno il pensiero greco pre-socratico. Devo dire che, ragionando e approfondendo questi temi, ho scoperto che sulla stessa linea di pensiero era Baruch Spinoza”.

Un pensiero capace di ispirarle il romanzo nuovo che sta scrivendo?

“Sì, nel mio nuovo libro cerco proprio di ragionare su questi temi. Ambientando la mia storia ad Amsterdam e a Kabul, durante le 24 ore dell’11 marzo del 2001, giorno in cui i talebani distrussero i grandi Buddha di Banyam”.

Per uno scrittore come lei che ama la musica, e la musicalità delle parole, della scrittura, com’è stato il passaggio dalla sua lingua madre al francese?

“Il persiano che si parla in Afghanistan è un po’ come il francese: sono due lingue monocordi. Non certo musicali come l’italiano o lo spagnolo. Non assomiglia nemmeno al farsi, quello che si usa in Iran, dove si sente la melodia del canto dentro la connessione delle parole. Ma il nostro persiano non ha una struttura sillabica. In più, i grandi autori della nostra letteratura sono poeti, non romanzieri. Sono stati proprio loro a dare un ritmo alla nostra lingua. Non sillabico, come dicevo prima, ma estremamente interiore. Sia nell’uso delle parole che in quello del silenzio”.

E questo suono, per lei, è la base della scrittura?

“Il suono, la musicalità, è importante per tutto il mio popolo. Anche per la vicinanza di un Paese musicalissimo come l’India, da cui abbiamo importato tanti strumenti per suonare. Quand’ero ragazzo sono stato imbevuto di questa cultura musicale. In più, la mia famiglia era appassionatissima della grande tradizione melodica europea. Quindi, quando scrivo la musica è dentro di me. È lì che detta il ritmo”.

Mai pensato di fare il musicista?

“Per fortuna, no. Altrimenti mi sarei dedicato soltanto a quello. E non avrei scritto poesie, romanzi. Non avrei mai girato un film”.

La donna al centro di “Pietra di pazienza” insulta il mullah, inveisce contro chi ha convinto suo marito a combattere, a diventare un martire. Sarà il mondo femminile a cambiare l’Islam?

“La libertà di parola è la cosa più importante. Ed è proprio parlando senza freni, senza limiti, che la protagonista del mio romanzo si scopre e si libera. In un Paese patriarcale come l’Afghanistan, però, perché una moglie possa dire quello che pensa l’uomo dev’essere in condizione di non muoversi. Di non intervenire. Esattamente come il soldato del libro, che giace inerte dopo essersi beccato una pallottola in testa. È evidente che il potere degli uomini, in una società composta da almeno metà della popolazione da donne, deriva comunque da lì. Dalla capacità di dominare quel mondo femminile, e questo le religioni lo hanno compreso molto bene”

E se le donne si liberassero per davvero?

“I conti sono presto fatti: se il 50 per cento di una società acquista la libertà di dire quello che pensa, e agisce di conseguenza, l’altro cinquanta per cento dovrà trovare una soluzione per non farsi scalzare dal potere”.

Troverà mai il suo Afghanistan un periodo di pace e di libertà?

“Il mio Paese fa parte del mondo. E se tutto attorno le cose andranno meglio, allora anche l’Afghanistan conoscerà tempi migliori. Il suo avvenire dipende da quello che accade in giro. Perché la crisi economica e geopolitica del mondo, in qualche maniera, influisce, si scarica su di noi. Così, sono arrivati fino a Kabul i riflessi della guerra di religione tra Iran e Arabia Saudita, di quella tra Iran e Pakistan, di quella tra Pakistan e India. Il futuro dipende tutto da questo equilibrio instabile”.

Che cosa le manca della sua terra?

“Più di tutto? Un pesce d’acqua dolce che si pesca nel Nord dell’Afghanistan”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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