• 15/05/2018

Luc Lang: “Chi ci vive accanto è l’enigma più grande”

Luc Lang: “Chi ci vive accanto è l’enigma più grande”

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L’altro-da-noi è l’enigma più grande. Anche se lo amiamo, trascorriamo insieme gran parte del tempo, condividiamo ansie e momenti felici. Perché provare a capire chi ci sta davanti, chi ci vive accanto, chi abita le nostre stanze e il tempo scandito dallo scorrere dei giorni, è un maledetto, complicato imbroglio. Dal momento che ogni essere umano difende con silenziosa tenacia il proprio angolo buio. Piccoli segreti, pensieri inconfessabili, desideri impossibili da condividere. Viaggi mentali, che quasi sempre restano chiuso dentro la testa

Ma che cosa succede quando l’altro-da-noi è costretto a rivelare il suo lato oscuro? Se lo è chiesto uno degli scrittori francesi più bravi, Luc Lang, nel suo nuovo romanzo “All’inizio del settimo giorno”, tradotto da Maurizio Ferrara per Fazi Editore (pagg. 561, euro 18). Tre libri in uno, dove il vincitore del Prix Goncourt des lycéens, che è stato finalista anche al Goncourt maggiore, il premio più importante del suo Paese, costruisce altrettante storie. Con personaggi, ambientazioni diverse. Ma riconducibili, ovviamente, alla stessa domanda: siamo ancora disposti a valicare distanze incolmabili per arrivare alla verità?

Luc Lang parte da un microcosmo quasi perfetto. Quello di Thomas, un ingegnere informatico che sembra in grado di programmare e gestire il divenire della propria vita con mirabile razionalità. Fino a quando, una notte, lo squillo del telefono gli porta la notizia che sua moglie Camille è stata coinvolta in un grave incidente. Ma che ci faceva lei su quella strada quattro ore dopo la mezzanotte? E perché ha perso il controllo della macchina su un rettilineo? Per darsi delle risposte dovrà essere disposto ad abbandonare le proprie fragili certezze.

Ma quella di Thomas è soltanto una delle storie che portano Luc Lang a spostarsi tra Parigi e Le Havre, a spingersi sui Pirenei e poi giù fino al Camerun. Seguendo traiettorie lineari, eppure complicatissime, per provare a raccontare quanto siano intricati gli equilibri all’interno dei nuclei familiari. E quanto difficile sia riuscire a comprendere persone di cui ci illudiamo di sapere tutto.

“La scelta del titolo non è casuale – spiega Luc Lang, invitato al Salone del Libro 2018 al Lingotto di Torino (che quest’anno ha chiuso con la cifra record di oltre 170mila visitatori) per presentare in anteprima per l’Italia il suo romanzo -. Il riferimento al settimo giorno della Bibbia ha un significato preciso. Perché la storia dell’uomo, secondo il libro sacro, parte proprio dalla cacciata dal Paradiso terrestre. Da un episodio drammatico, insomma, esattamente come nel mio libro. Potremmo anche dire che questo romanzo è una sorta di iniziazione al lato oscuro della vita”.

Perché, in realtà, il mestiere più difficile è proprio quello di vivere?

“È difficile saper interpretare bene il proprio ruolo. Perché ci viene chiesto di essere un professionista serio nel lavoro, ma anche un marito amorevole, un bravo genitore, un fratello che sa stare vicino a sua sorella. Poi, a un certo punto, un banale incidente come quello che avviene all’inizio del mio romanzo mette in difficoltà chi dovrebbe continuare a svolgere i suoi innumerevoli compiti. Ecco, volevo raccontare proprio questa difficoltà di noi uomini contemporanei a non perderci. A non lasciarci andare”.

Difficile capire veramente chi ci sta accanto?

“Thomas è un ingegnere elettronico. Si illude di essere pronto ad affrontare la vita. Super corazzato, attrezzato ad affrontare qualsiasi tipo di problema. Crede di avere tra le mani il futuro, perché lui sa padroneggiare le nuove tecnologie. Quegli aggeggi che hanno trasformato la nostra società, l’intero pianeta. Che hanno fatto sembrare vecchissime, lontane nel tempo, le generazioni che ci hanno preceduto”.

E invece?

“D’improvviso scopre di essere un uomo del tutto inerme. Quando gli comunicano che Camille ha avuto un incidente, Thomas non ha gli strumenti per affrontare la realtà. Tutto il castello di certezze costruito nel suo percorso di lavoro crolla davanti all’imprevisto. Con l’arma dell’elettronica non può fare niente, è come se fosse nudo al cospetto della vita. Pergestire la realtà conta più l’intuizione dell’intelligenza pura”.

Ha vinto il Goncourt des lycéens, poi è stato finalista del Premio maggiore: tutto molto facile?

“Assolutamente no. Perché in Francia i giornali concentrano la loro attenzione su un numero ristretto di scrittori. Sembra che esistano soltanto quelli, gli altri devono muoversi come clandestini. Guadagnare visibilità battendo altre strade. Ecco, conquistare dei premi, o anche arrivare tra i finalisti, per i non eletti è davvero una grande conquista”.

Quando è entrata la scrittura nel suo immaginario?

“Ero uno studente, avevo poco più di vent’anni. Mi piaceva tantissimo inventare, raccontare storie. Poi, però, quando ho deciso di provare a scrivere mi sono reso conto di quanto sia differente la realtà dal sogno”.

In che senso?

“Se vuoi diventare uno scrittore, nel senso più alto della parola, devi cercare uno stile, un ritmo narrativo, una visione sulle cose molto personale. Non ci si può improvvisare: per scrivere un romanzo ci vuole una grande passione. Esattamente come disegnare un palazzo, una città, per l’architetto. Tutti e due devono costruire qualcosa che rimanga”.

È stato poi facile pubblicare il primo romanzo?

“No, per niente. Anzi, i primi due libri sono stati rifiutati. Ma devo dire ancora oggi grazie all’editore, perché non erano validi. Poi è arrivato ‘Voyage sur la ligne d’horizon” e quello ha ottenuto subito un grande successo”.

Questa volta ha voluto chiudere tre mondi dentro lo stesso libro. Perché?

“Mi interessava tracciare una sorta di ritratto della nostra realtà in questo tempo. Dove un continente sembra lanciato verso il futuro e l’altro, invece, è prigioniero del passato. Dove si contrappongono ricchezza e miseria, dove la famiglia fa fatica a sopravvivere anche perché spesso nasconde segreti inconfessabili. Dove, soprattutto, la verità è sempre più sfuggente”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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