• 28/05/2018

Ben Marcus, le parole sono armi improprie

Ben Marcus, le parole sono armi improprie

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Parole come coltelli. Parole boomerang, che viaggiano alla velocità di un pugno e tornano indietro. Parole dure come blocchi di pietra, pesanti come clave, capaci di distruggere un delicato equilibrio che ha trovato il proprio assetto stabile dopo lunghi sforzi, interminabili mediazioni. Siamo nell’era della comunicazione fuori controllo, del linguaggio trasformato in arma impropria, delle bombe a mano fatte di giudizi taglienti, maldicenze, illazioni, subdole supposizioni. Ma cosa accadrebbe se, un giorno, si diffondesse un morbo mai visto: quello portato proprio dai suoni della nostra voce, dai discorsi, dai racconti fatti in pubblico?

Se lo è chiesto uno dei più originali scrittori americani, ancora tutto da scoprire in Italia: Ben Marcus. Lui, che vive di parole, non solo per i libri e gli articoli che va pubblicando su riviste prestigiose come “The New Yorker”, “The Paris Review”, “Granta”, ma anche per il lavoro di docente che svolge alla Columbia University School of Arts, ha provato a immaginare un mondo ferito dalle parole, ammalato di racconti. Messo in ginocchio dalla violenza inaspettata della voce. È nato da lì il suo perturbante, glaciale e travolgente romanzo “L’alfabeto di fuoco” che Gioia Guerzoni ha tradotto per Black Coffee (pagg, 363, euro 15), un nuovo, intelligente progetto editoriale, con sede a Firenze, dedicato alla letteratura nordamericana contemporanea.

Sempre di Ben Marcus, nato nel 1967, figlio di un matematico ebreo e di una studiosa irlandese cattolica di Virginia Woolf, con casa a New York dove vive insieme alla scrittrice Heidi Julavits,  Black Coffee pubblicherà anche un altro romanzo: “Leaving the sea”.

Sarebbe normale pensare che Ben Marcus abbia preso spunto dall’America di Donald Trump. Dalla sua foga di comunicare, senza pensare troppo, non solo nei comizi elettorali, nelle esternazioni ufficiali da presidente, ma anche scrivendo in rete, spiazzando tutti soprattutto con i fulminanti messaggi di Twitter. Sbagliato, perché “The flame alphabet” è uscito nel 2012 negli States, quando l’uomo con il ciuffo color carota non era ancora salito al potere. Vero è, invece, che lo scrittore già da tempo andava meditando sull’imbarbarimento del linguaggio. Sul pericolo di maneggiare le parole come fossero mazze ferrate, senza rendersi conto che hanno un’anima esplosiva come la nitroglicerina.

Così, Ben Marcus si è messo a immaginare un’America apocalittica. Un mondo dove gli incubi di Franz Kafka, George Orwell, Aldous Huxley, Jorge Luis Borges, e di tanti altri scrittori capaci di dare voce a un futuro totalmente fuori controllo, sembrano essersi fusi in un’unica, incontenibile minaccia. Perché , nel romanzo, quando i bambini parlano, quando gli adolescenti raccontano i loro sogni, la normalità dei giorni, le speranze nel futuro, gli adulti si ammalano. Perdono progressivamente le forze, avvizziscono. E non c’è cura valida, nessuna diavoleria scientifica, nessun antidoto chimico o naturale che possa fermare quella furia devastatrice fatta di normalissimi suoni vocali.

Nel mondo sconvolto di Marcus, una coppia di genitori si illude che una parola di verità, un suggerimento concreto per sopravvivere all’epidemia di parole, arrivi dai sermoni di un rabbino eretico. Il misterioso Burke, che comunica tramite complicati apparecchi trasmittenti collegati a fasci di cavi che emergono direttamente dalla terra. Ma tutti i rimedi che Sam sperimenta sulla moglie Claire, e su se stesso, finiscono per funzionare soltanto per lo spazio di un’illusione. Perché poi, quando la figlia Esther ritorna a casa e si mette a sproloquiare, l’avanzare del morbo si fa implacabile. Avvicinando ogni minuto di più i malcapitati alla fine.

Non c’è speranza di guarigione in un’America dove un misterioso personaggio dai mille volti, LeBov, promette miracolose guarigioni. Affidando a sfuggenti alter ego, a lestofanti che parlano contro di lui pur assomigliandogli in tutto e per tutto, il compito di demolire i suoi discorsi, le sue elucubrazioni. E quando uno dei LeBov in circolazione si spegne, attraversa il confine che separa la vita e la morte, subito un altro è pronto a prendere il suo posto.

C’è solo un modo per provare a liberarsi dal contagio: bisogna abbandonare i proprio figli. Mettersi in viaggio, senza mai voltarsi, e staccarsi da loro. Sam e Claire, dopo una lunghissima serie di sofferte discussioni, decidono di accettare quella drammatica soluzione. Ma, strada facendo, capiranno che l’epidemia ha cause ben più misteriose. E che c’è qualcuno che sta provando a sfruttare un momento storico così tragico per imporre il proprio ordine. Per dettare, una volta per tutte, le regole del gioco.

Claustrofobico, inquietante, eppure lucidissimo e ben congegnato, “L’alfabeto di fuoco” non è il solito romanzo distopico capace di raccontare un futuro possibile. Tanto per regalare qualche avventuroso brivido su quello che potrebbe aspettarci. No, Ben Marcus ha voluto scrivere il suo “1984”, il suo “Mondo nuovo”, il suo “Processo”, partendo da uno sguardo ravvicinato sulla realtà che stiamo vivendo. Dove la forza della parola è fortissima, ma quasi nessuno sembra accorgersi che la stiamo usando come fosse una batteria di missili puntata contro gli altri-da-noi. Dove il Potere manipola le informazioni a piacere, riuscendo a venderle come verità inconfutabili. Dove i bambini, i ragazzi, contano soltanto quando diventano protagonisti di qualche campagna pubblicitaria per smerciare prodotti di consumo. Tendenze transitorie. Mode che durano il tempo di un battito di ciglia.

Ma, a ben pensare, in un futuro non lontano le parole potrebbero uccidere. Potrebbero trasformarsi in potenti ordigni utilizzati per controllare chi sceglie un’altra rotta. Così, chi oggi non ha potere, come i bambini, i ragazzi, diventerebbe all’improvviso una minaccia. Usando la stessa arma atomica di persuasone di cui ci serviamo noi: il linguaggio. In fondo, non sono i figli a tenere spesso in scacco i genitori con il loro pianto disperato? Con una forma di protesta che nulla ha, in apparenza, di violento. Ma che finisce quasi sempre per ottenere ciò che desidera.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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