• 27/05/2018

Delphine de Vigan, come sopravvivere alla famiglia

Delphine de Vigan, come sopravvivere alla famiglia

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Delphine de Vigan non ha paura di tirare cazzotti nello stomaco dei suoi lettori. Fin da quando, a 35 anni, per raccontare l’odissea di una ragazza anoressica in “Giorni senza fame”, ha pensato di mascherarsi dietro le pseudonimo Lou Delvig. Poi, nel 2007, è arrivato il successo clamoroso de “Gli effetti secondari dei sogni”, dove una ragazzina molto intelligente decideva di correre in aiuto a una senzatetto. E quattro anni più tardi, nel 2011, ha trovato il coraggio di trasformare il suicidio di sua madre Lucile Poirier in un libro che ha strabattuto i record di vendite in Francia e si è spinto fino alla finale del Prix Goncourt: “Niente si oppone alla notte”.

Ma toccare il tema della famiglia, si sa, è sempre ad alto rischio. Non solo perché la società continua a considerarla il nucleo fondante e irrinunciabile di un mondo civile, ordinato, vivibile, ma perché lo scrittore quasi sempre rischia di confezionare una favoletta, o al massimo un drammone, che gocciola retorica a ogni riga. Nonostante ciò, Delphine de Vigan non ha resistito alla tentazione di immergersi, senza salvagente, in questo magma narrativo incandescente. Infischiandosene del rischio di azzerare tutto il successo editoriale ottenuto fino a qui. Anche grazie al recente passaggio sugli schermi cinematografici del film di Roma Polanski “Tutto quello che so di lei”, che ha riportato alla ribalta il romanzo “Da una storia vera”, a cui è liberamente ispirato, della scrittrice francese di Boulogne-Billancourt (leggi la recensione in questo blog: “Roman Polanski, così si perseguita una scrittrice”).

Ne è venuto fuori un romanzo scarno, lucido, coraggioso, ben congegnato nella sua struttura narrativa che assembla voci diverse. Un viaggio dentro lo sfascio della famiglia moderna, ma anche dentro le troppe inadeguatezze della scuola pubblica e della società più in generale. “Le fedeltà invisibili”, tradotto da Margherita Botto per Einaudi (pagg. 134, euro 17), picchia duro fin dalle prime righe. Quando mette in scena Hélène, insegnante di scienze che porta ancora ben visibili nell’anima le ferite inferte da un padre violento, e la sua sempre più invasiva preoccupazione per un alunno, Théo Lubin, che in classe risulta sempre troppo lontano dalla realtà. Troppo appartato rispetto a quello che gli succede attorno.

Figlio di genitori separati, Théo in pratica deve fare da padre al suo papà ormai allo sbando, dopo che ha perso la nuova compagna e pure il lavoro. Ma deve stare attento anche a non lasciarsi bruciare le fragili ali dalla furia, dall’incontenibile amarezza che anima sua madre nei confronti dell’uomo che un giorno ha amato, ma che adesso disprezza con tutta se stessa. Denigrandolo appena può davanti al figlio. C’è solo una persona che sa stargli vicino con discrezione e amicizia: il compagno di banco Mathis. E sarà proprio con lui che, per cancellare quella realtà quotidiana fatta di continui cambi di casa, dove non lo aspetta mai una carezza, una parola dolce, un gesto gentile, Théo inizierà a bere. A stordirsi fino a barcollare, a non reggersi più sulle gambe.

Solo Hélène, forse troppo ansiosa nei confronti dei suoi alunni, capisce esattamente che cosa sta accedendo nella vita di quel bambino. Anche perché la mamma di Mathis, preoccupata che suo figlio si isoli da tutti gli altri per trascorrere gran parte del tempo con Théo, non può condividere con il marito l’angoscia sempre più forte. Dal momento che scopre nella memoria del computer dell’uomo una serie di deliranti, violenti, astiosi messaggi messi in rete con la firma fasulla di Wilmor75, che gli hanno procurato un certo seguito sui social da parte di razzisti, xenofobi, seminatori senza volto di odio. La scuola, poi, il consiglio dei docenti sembrano completamente insensibili al fatto che la famiglia scoppiata di Théo non si accorga che lui sta andando a fondo.

Così, le fedeltà invisibili, quei fili che ci legano agli altri,  scrive Delphine de Vigan  “come promesse che abbiamo sussurrato e di cui non riconosciamo l’eco”, finiscono per imbrigliare chi potrebbe intervenire. Lasciando che Théo precipiti nella sua disperata assenza d’amore. E che corra con incosciente determinazione verso il coma etilico: unico reale, desiderato, drammatico momento di tranquillità e devastante, illusorio benessere. In un mondo dove gli adulti non fanno niente perché i propri errori non ricadano sui figli. E dove i bambini non possono fare a meno di amare i genitori, di provare a sopravvivere alla famiglia, sperando che un giorno si accorgano della loro disperata voglia di perdonare tutto. In cambio di un po’ di serenità e di affetto.

Una storia così non può ammettere una chiusura razionale, geometrica. Perché la vita ci sottopone molte domande, ma poi è avara di risposte. E allora Delphine de Vigan lascia che sia il lettore a immaginare come andrà a finire. Se sia giusto illudersi che per Théo, il suo amico Mathis e l’insegnante Hélène, trattata dai colleghi come una povera sciroccata, sia pronto il classico “happy end”. Oppure se, per una volta, sia meglio caricarsi sulle spalle il peso di un finale tragico, straziante. Terribilmente reale. Per non continuare a raccontarsi favole. E transitare, nella vita reale, accanto a vicende come questa senza riuscire mai a individuarle.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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