Siamo figli di un mondo arrogante, nipoti di una cultura che si illude di sapere tutto. E pronipoti di quei finti iconoclasti che, come diceva lo psicoanalista e scrittore James Hillman, si sono illusi di risolvere tutti i nostri problemi cacciando i vecchi dei dal cielo. Al contrario, di giorno in giorno ci scopriamo sempre più fragili. Di fronte alla violenza, al desiderio sfrenato di denaro, a una frequentazione compulsiva e insoddisfacente del sesso. Perché non sappiamo più dare un nome ai nostri disagi. Non riusciamo più a proiettare fuori dai labirinti mentali gli spettri che ci tormentano.
E allora, basta che bussi alla porta qualcosa di perturbante, di irrazionale, di inspiegabile, per farci traballare come birilli. Un evento apparentemente assurdo, un disturbo che la scienza medica dovrebbe risolvere in poche ore, vista la quantità di macchinari sofisticati che possono scrutare dentro il corpo umano senza consentirgli di conservare segreti, innesca la tragedia. Ed è proprio da lì, dalla sicurezza che i propri figli guariranno da una misteriosa malattia, che parte il protagonista di “Il sacrificio del cervo sacro”, il nuovo film del regista greco Yorgos Lanthimos premiato per la Migliore sceneggiatura al Festival di Cannes 2017. Storia che lo stesso cineasta ha firmato insieme al fedele Efthymis Filippou. In più, il Festival di cinema fantastico di Sitges, in Catalogna, gli ha reso omaggio assegnando alla pellicola il Premio della critica.
Steven Murphy (un gelido,, razionale, strepitoso Colin Farrell), stimato cardiochirurgo che gestisce la vita della propria famiglia con affettuoso rigore, nasconde in realtà un segreto imbarazzante. Senza dire niente alla moglie Anna (un’algida, torbida, sempre affascinantissima Nicole Kidman) vede da tempo di nascosto un ragazzo sedicenne. E non si accontenta di incontrare Martin Lang (Barry Keogan, che nasconde dietro un volto dalla banalità disarmante dei lampi di malvagia irrequietezza) in una tavola calda, nel parcheggio dell’ospedale dove lavora. Ma lo vezzeggia, gli fa regali costosi, gli propone di incontrare la sua famiglia appena possibile.
Sembrerebbero scene di ordinaria seduzione al limite della pedofilia. Ma alle spalle di quegli strani incontri, la storia è molto più complessa. E Steven Murphy trova il coraggio di raccontarla soltanto quando il ragazzo pretende sempre di più. Si spinge fino alle corsie dell’ospedale, mettendo in forte imbarazzo il chirurgo, gli fissa appuntamenti pur sapendo che non può lasciare la sala operatoria. Fino a minacciarlo con dolente sicurezza.
Martin, in realtà, non è il torbido oggetto del desiderio di un uomo che ha già raggiunto livelli prestigiosissimi nella sua carriera di medico. No, lui è figlio di un paziente di Steven Murphy, morto sul tavolo operatorio durante un intervento a cuore aperto. E si trova a recitare la sua parte nella vita del medico soltanto perché svolge il ruolo di esattore del Destino. Ovvero, è lì per riscuotere vendetta. Non è buono né cattivo. Deve portare a compimento un oscuro disegno, solo quello. Deve ristabilire un equilibrio turbato.
La scelta spetta a Murphy: uno dei suoi due figli deve morire. Potrebbe essere la deliziosa Kim (Raffey Kassidy) dalla voce d’angelo, che in una scena di estatica bellezza canta per Martin a cappella la canzone di Ellie Goulding “Burn”. Oppure il piccolo Bob (Sunny Suljic), imperturbabile ribelle di famiglia, che non si fa mai tagliare i capelli e si sottrae appena può ai piccoli lavori di casa che gli vengono assegnati. Sarà impossibile fermare la nemesi: anche quando il medico decide di entrare in azione, di minacciare il ragazzo ricattatore, di chiuderlo dentro la taverna di casa e riempirlo di botte, i segni della fine imminente per i ragazzi non si arresteranno.
“Il sacrificio del cervo sacro”, come dice il titolo, è una sorta di rilettura in chiave contemporanea della tragedia di Euripide “Ifigenia in Àulide”. Dove Agamennone si vede bloccare la flotta, all’improvviso, a causa di una bonaccia, impedendogli così di fare rotta verso Troia. Dall’indovino Calcante verrà a sapere che è la dea Artemide a impedire la spedizione, facendo vacillare il suo potere di re, dal momento che è infuriata con lui perché ha ammazzato uno dei suoi cervi sacri, senza minimamente sognarsi di riparare il danno. E allora, dovrà togliere la vita alla sua figlia prediletta, Ifigenia, sacrificarla per rimettere in pari i conti, se non vuole veder fallire il suo progetto militare.
Come nella tragedia di Euripide, Kim dichiara tutto il suo amore al padre. E si dice disposta a rinunciare alla vita, per dimostrare quanto forte sia il suo legame con la famiglia. Ma in un mondo che ha ormai chiuso i canali di comunicazione con il sacro, che non capisce più il valore del mito e dei vecchi archetipi, niente può fermare la furia cieca del Caso. Non certo Dio, visto che lassù non è rimasto più nessuno. E Yorgos Lanthimos lo sottolinea con un’angosciante, asettica ripresa dall’alto di Bob che perde l’uso delle gambe, come aveva profetizzato Martin. E crolla a terra nell’atrio dell’ospedale, senza che sua madre, di professione oftalmologa, o qualcuno degli altri luminari della medicina rintanati lì dentro possa fare alcunché per aiutarlo.
Illuminato dalla fotografia limpida e mai fuori controllo di Thimios Bakatakis, “Il sacrificio del cervo sacro” sottolinea la sua perturbante storia con una colonna sonora presa a prestito dai grande nomi della musica. Come Stanley Kubrick, anche Yorgos Lanthimos sottolinea i passaggi salienti della storia affidandosi a brani di György Ligeti (ascoltato non solo in “Shining”, ma anche in “2001 Odissea nello spazio” e in “Eyes Wide Shut”), ma anche a pezzi della grande compositrice russa Sofia Gubaidulina, premiata con il Leone d’oro dalla Biennale di Venezia nel 2013,. Gioielli oscuri che danno voce, tra le dissonanze della musica elettronica e il soffio magico degli strumenti tradizionali, al legame forte e arcano che lega il regista di Atene alla tragedia classica di Euripide.
Non c’è speranza di sottrarsi alla furia del dio senza volto. Uno dei figli di Stephen Murphy dovrà pagare la morte del padre di Martin con la sua vita. Perché in un mondo che vive navigando a vista, dove il denaro può mettere a tacere anche i delitti più infami, dove la scienza siillude di dominare l’universo solo perché si affida ai responsi enigmatici di macchine sofisticatissime , dove l’amore è diventato un’inutile recita, un perturbante gioco di ruolo, tutto diventa possibile, credibile. Dal momento che l’uomo non è più in grado di sottrarsi ai disastri provocati dalla sua stupida presunzione di essere il signore assoluto del qui-e-ora.
E allora, la vendetta del dio senza volto cala sulle vite umane come fosse una scure affilatissima.
<Alessandro Mezzena Lona