Lo sapevano i sacerdoti delle religioni più antiche. E gli sciamani, gli officianti di riti di liberazione dalla possessione come gli Ghnaua del Marocco, non ne hanno mai potuto fare a meno. Perché la musica è la via più breve per entrare in una stato di coscienza modificato. Per raggiungere la transe. Suoni ritmati, ripetitivi, e passi di danza rituali hanno funzionato, da sempre, molto meglio delle sostanze psicotrope. Di certe droghe. Per favorire l’incontro con l’altrove, con l’inconoscibile. Con quello che è altro-da-noi. Lo diceva con straordinaria convinzione anche lo studioso francese Georges Lapassade, professore di Etnografia all’Università di Parigi, in alcuni suoi saggi come “Stati modificati e transe” e “Dallo sciamano al raver. Saggio sulla transe”.
E, forse, per capire la forza profonda del nuovo album dei Dead Can Dance, sarebbe giusto provare a liberare la mente da tutti i pensieri che ci tormentano nella quotidianità. Per lasciarsi trasportare da questa sinfonia in onore di “Dyonisus”, il dio del vino e dell’ebbrezza, l’inconoscibile messaggero dell’altrove che è, al tempo stesso, maschio e femmina, divino e animale, umano e immortale. La figura che, tra tutte quelle del pantheon pagano, si rispecchia di più nel nostro mondo contemporaneo. Fatto di una voglia sfrenata di divertirsi, ma anche da una tentazione fortissima di rispolverare vecchi credo e tabù che credevamo ormai superati.
Partiti dalla new wave e dalle sonorità dark, i Dead Can Dance (ovvero, lo straordinario polistrumentista che è Brendan Perry e la voce dagli ancestrali, luminosi richiami che è Lisa Gerrard) hanno allargato sempre di più gli orizzonti della loro musica. Passando dal debutto, nel 1984, con l’oscuro “Dead Can Dance”, a una sempre maggiore attenzione per sonorità che contenessero le tradizioni popolari, spirituali e, perché no, esoteriche dei diversi continenti. Costruendo affreschi sonori capaci di far convivere percussioni africane e folk celtico, canto gregoriano e mantra mediorientali. Usando strumenti dimenticati, campionando i suoni della Natura.
Arrivati alla massima popolarità con lavori come “The serpent’s egg”, “Aion” e “Into the labyrinth”, i Dead can Dance, venuti da Melbourne fino all’Europa per far conoscere il proprio verbo musicale, decisamente “altro” rispetto a tanto rock e pop, hanno attraversato una crisi umana, sentimentale e artistica negli anni Novanta. Ma, dopo una serie di lavori da solisti di indiscusso fascino, nel terzo millennio Lisa Gerrard e Brendan Perry si sono accorti che il loro viaggio sul pentagramma non poteva concludersi così. Infatti, nel 2012 è arrivato quell’autentico gioiello discografico che è “Anastasis”. E dopo sei anni di ulteriore silenzio, questo “Dyonisus”. Inciso per la Dcd, composto da due lunghe suite che coprono lo spazio di 36 minuti, fin dall’immagine di copertina dichiara di voler sorprendere e incuriosire chi si appresta a intraprendere il viaggio musicale.
Il misterioso volto che campeggia sulla cover di “Dyonisus”, infatti, è una maschera fatta dagli Huichol, una popolazione della Sierra Madre in Messico. E si rivela una sorta di spirito guida per chi è pronto a farsi avviluppare, ipnotizzare dalle tessiture sonore dei Dead Can Dance. Che nei due movimenti del disco prendono come punto di partenza l’antica Grecia, e il culto di una divinità vitalissima e ambigua come Dioniso, ma sconfinano presto verso altre culture. In un va e vieni continuo tra l’Europa e l’America Latina, tra l’Africa e l’Asia. Si parte con le tre sezioni della prima parte (“Sea Borne”, “Liberator of minds” e “Dance of the Bacchantes”) dove è subito chiaro che Brendaan Perry si assume tutto il ruolo di gran cerimoniere, di traghettatore. Di chi, insomma, deve guidare il rito in musica, come lo psicopompo era preposto a indirizzare le anime dei defunti verso l’oltretomba. Mentre la straordinaria voce di Lisa Gerrard si alterna nel creare tappeti di note ieratiche e seducenti e lasciarsi andare a liberatori ululati, che richiamano l’atmosfera dei riti delle baccanti.
Per creare le spirali sonore di “Dyonisus”, i Dead Can Dance hanno voluto mettere assieme una strumentazione del tutto straordinaria. Chi ascolta il primo andamento, e poi anche il secondo (composto da “The mountain”, “The invocation”, “The forest” e “Psychopomp”) potrà riconoscere tamburi ancestrali e cornamuse, flauti della Corsica e la gadulka, uno strumento a corde bulgaro che crea atmosfere di arcana bellezza. E sempre dalla Bulgaria, a creare sintonie mesmeriche con la loro straordinaria vocalità, compaiono tra gli ospiti dei Dead Can Dance Le Mystère des Voix Bulgare. Il coro femminile a cappella che, l’anno scorso, aveva già collaborato con Lisa Gerrard per il progetto “Pora sotunda” e per l’album “BooCheeMish”. I più attenti coglieranno, in più, versi di animali, rumori della natura, soffi di vento e un gocciolare d’acqua, campionati apposta per questo lavoro.
E se Dioniso, alle origini, era considerato il dio della vegetazione, legato alla linfa vitale che scorre nelle piante, all’essenza stessa dell’esistere, con questo “Dyonisus” i Dead Can Dance vogliono riportare in vita quella sintonia con la Madre Terra che l’umanità ha perduto da tempo. Officiando una sorta di iniziazione musicale che turba e affascina. Che fa viaggiare la fantasia e sussurra misteri dimenticati. Che si riappropria di una sintonia tra corpo e mente, tra esterno e interno, tra trascendente e immanente, tra spirituale e materiale, che soltanto un rituale dedicato al dio delle infinite possibilità poteva consentire.
<Alessandro Mezzena Lona