Dicono che il Giro d’Italia più duro, Fausto Coppi lo vinse subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non nel 1940 o nel 1947, non nel 1949 o nel 1952, e nemmeno nel 1953. No, il Campionissimo dovette superare se stesso nel 1945. Quando, cessato il rombo dei cannoni, fermati i raid aerei, si trovò a pensare come ritornare a casa. Nella sua Castellania. Visto che lui, fatto prigioniero dagli inglesi in Tunisia, era diventato l’autista del tenente Towell a Caserta. Ma nessuno sembrava disposto a dargli un passaggio, a fargli coprire i 700 e passa chilometri che lo separavano dalla sua terra a bordo di un camion, di una macchina o di una motocicletta. E allora?
Semplice. Bisognava inventarsi un modo per far ritornare a casa il Campionissimo. Così Fausto entrò nella sede del giornale “La Voce”, andò di filatoi nella stanza del direttore e gli chiese di aiutarlo. E lui, che a Coppi non avrebbe mai detto di no, si fece venire una bellissima idea. Lanciò la campagna popolare: “Diamo una bicicletta a Coppi”. E, alla fine, una due ruote saltò fuori per davvero. Insieme a una maglia su cui era stampata la scritta “Nulli”, che non era nient’altro che il cognome di chi aveva procurato il necessario.
Sembra una storia inventata. E, invece, è soltanto una delle tantissime tappe della vita da romanzo di un ciclista che la gente non riesce a smettere di amare. A testimoniare la passione ancora assai viva per il Campionissimo sono, senza dubbio, i tanti libri usciti quest’anno per ricordare il centenario della nascita del vincitore di cinque Giri d’Italia, due Tour de France, cinque Giri di Lombardia, tre Milano-Sanremo, una Parigi-Roubaix, una Freccia Vallone, il Campionato del mondo e il massacrante record dell’ora. Tra tanti, uno dei più belli lo ha scrittoi Maurizio Crosetti. Si intitola “Il suo nome è Fausto Coppi” (pagg. 218, euro 17,50), lo pubblica Einaudi Stile Libero. Ed è una raccolta di voci, una sinfonia di testimonianze. Un coro di dettagli, particolari, emozioni, stati d’animo, rimpianti e momenti di gioia, puntualizzazioni e silenzi.
Insomma, Maurizio Crosetti, che è torinese e lavora alla “Repubblica” come inviato speciale, ma che oltre a seguire i principali avvenimenti sportivi e raccontarli sul quotidiano è autore di un romanzo e di una raccolta di favole, per tracciare il ritratto di Coppi ha cercato una strada diversa. Dopo aver letto tantissimo, dopo aver scandagliato la vita del campione che volava sulle salite come un telescopio che scruta le altre galassie in cerca di altre forme di vita, ha deciso che era arrivato il momento di provare a immaginare un gran sovrapporsi di voci sole. Una sorta di esibizione corale, ma fatta di assoli che alzassero il sipario sui momenti più importanti della vita di Angelo Fausto Coppi.
Ed è lì, in quell’invenzione narrativa semplicissima eppure geniale, che sta la forza del libro di Maurizio Crosetti. Perché ad ascoltare mamma Angiolina e papà Domenico viene fuori il ritratto non tanto dell’Airone che, quando apriva le ali sulle salite d’Europa lasciava tutti gli avversari ad arrancare, senza la minima possibilità di riacciuffarlo. Ma, piuttosto, ritorna sotto gli occhi del lettore la fragilità di un bambino che, appena nato, sembrava tutto occhi su un corpicino gracile. E che poi, crescendo, assomigliava forse più all’immagine della fragilità che a quella del vigore atletico. Anche se, poi, il massaggiatore cieco Biagio Cavanna, l’uomo che cercava il talento dei ciclisti tastando loro le gambe, le reni, con le sue mani che sembravano dotate di una vista prodigiosa, aveva capito subito di che pasta fosse fatta quella strana struttura ossea. Con un torace bombato, due cosce muscolosissime, un cuore che batteva così lentamente da temere che si fosse dimenticato di andare avanti.
E allora, tra le voci che Maurizio Crosetti si è messo a raccogliere, sfilano, come dovessero testimoniare in un immaginario processo intentato dalla memoria, il rivale per antonomasia, Ginettaccio Bartali, che in realtà non si è mai rassegnato a vedersi portare via il suo avversario di sempre da una stupida malattia come la malaria. E poi Sandrino Carrea, Ettore Milano, i gregari biancocelesti dello squadrone Bianchi che scortavano, incoraggiavano, coccolavano, consolavano, custodivano Fausto Coppi come fosse un oracolo prezioso.
Vittorie mirabolanti e terribili momenti di crisi, esaltanti momenti sportivi e drammatici contrattempi umani, scandiscono la storia di un uomo che non avrebbe saputo che farsene della propria vita lontano dal mondo delle corse in bicicletta. Un fuoriclasse per cui, qualcuno sostiene ancora, perfino Benito Mussolini si dichiarò disponibile a posticipare la dichiarazione dell’entrata in guerra dell’Italia. Altrimenti gli avrebbe impedito di portare a termine il Giro del 1940. Quello che avrebbe inaugurato una lunghissima scia di trionfi.
A Fausto Coppi non è stato risparmiato niente. Nemmeno la denuncia per “abbandono del tetto coniugale”, quando si innamorò di Giulia Occhini. Che tutti, ancora, si ostinano a chiamare la Dama bianca, per quel montgomery chiaro che indossava la prima volta che la avvistarono a fianco del grande ciclista. E nelle pagine che ripercorrono i giorni dello scandalo, della malinconia e della sofferenza, Maurizio Crosetti è bravissimo a dare voce ai protagonisti senza prendere mai parte. Però lascia capire, eccome, che una morale bigotta e ottusa riuscì a scrivere uno dei capitoli più bui della recente storia d’Italia.
Perché, come sussurra la voce pacata, elegante, mai sopra le righe del campione, nel capitolo conclusivo, di “Il suo nome è Fausto Coppi”, “gli occhi di Giulia erano blu pervinca, e io le ho solo voluto bene”. Ma l’amore, per chi è animato da pregiudizi, è troppo spesso un errore.
<Alessandro Mezzena Lona<