• 08/12/2019

Samanta Schweblin: “Ma così esorcizziamo la tecnologia”

Samanta Schweblin: “Ma così esorcizziamo la tecnologia”

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Macché fantascienza. Ma quale romanzo di genere. Samanta Schweblin ha le idee molto chiare quando parla del suo “Kentuki”. E non accetta l’idea che dei pupazzi in forma di animaletti, con telecamera incorporata, messi nelle case dei suoi personaggi possano giustificare il fatto che tanti critici abbiano parlato del suo libro spacciandolo per una distopia. Per un viaggio nel futuro. Anche perché, dice la scrittrice argentina di Buenos Aires, collegare un tablet alla rete wi-fi di casa ha un sapore decisamente più futuribile e sorprendente. Eppure, lo facciamo ogni giorno, senza scomporci minimamente.

Di sorprendente, invece, c’è la qualità del lavoro letterario che Samanta Schweblin fa quando scrive un libro. Perché sa mescolare uno stile pop a un impianto narrativo ricco di invenzioni, a un linguaggio preciso, immaginifico e, al tempo stesso, letterario. Ottenendo un impasto di narrativa fruibile e divertente, che pone al lettore molte domande. E lo porta a riflettere sulle possibili traiettorie di un futuro immediato ancora tutto da immaginare.

“Kentuki”, tradotto da Maria Nicola per la casa editrice Sur (pagg. 230, euro 16.50), è un termitaio di storie e di personaggi. Immagina che Buenos Aires, ma anche Zagabria, Pechino, Tel Aviv, Oaxaca, si popolino all’improvviso di pupazzi in forma di drago, topo, corvo, coniglio, con una micro telecamera installata nel corpicino. L’acquisto, che diventa compulsivo,  permette di decidere se avere o essere uno di quegli esseri. Così buffi e teneri solo all’apparenza. Perché, in realtà, il loro ruolo è quello di scrutare le vite degli altri. Di inquadrare e diffondere i dettagli di storie private. Ma per conto di chi? E, soprattutto, perché? (vedi la recensione pubblicata su questo blog il 28 ottobre 2019 “Samanta Schweblin, le nostre vite spiate dai Kentuki”).

Invitata al Festival “Più libri più liberi”, nella splendida Nuvola di Roma all’Eur, Samanta Schweblin, che la rivista “Granta” ha inserito nel 2010 tra i 22 migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni, è conosciuta ai lettori italiani anche per i racconti de “La pesante valigia di Benavides” e “Distanza di sicurezza”. Che l’anno prossimo entreranno nel catalogo Sur in traduzioni rivedute e aggiornate.

“Tra qualche mese uscirà in Italia il mio romanzo – racconta Samanta Schweblin – che è intitolato ‘Distanza di sicurezza’. E sono molto contenta di poter dire che, insieme, arriverà anche il film prodotto da Netflix”.

Com’è nata l’idea dei Kentuki?

“Per una serie di suggestioni che sono arrivate tutte insieme. In quel periodo ero a Buenos Aires e vedevo in giro un gran numero di fotografie scattate da droni. Immagini che ci consentivano di osservare il nostro quartiere in maniera del tutto nuova. Ci rivelavano particolari assolutamente sconosciuti. E ci regalavano anche una nuova libertà di guardare le cose da un’altra prospettiva. In più, una mia amica si era comperata uno di quegli aspirapolvere super intelligenti. Capaci di comprendere se c’è un ostacolo, lo spazio in cui si trovano, se il pavimento è pulito o sporco. Mi sembrava tutto fenomenale”.

Ha iniziato a farsi domande?

“Mi sono chiesta, ad esempio, com’è possibile che esista qualcosa di complesso come un drone. Che ci permette di spiare il giardino del nostro vicino. E invece non c’è qualcosa di molto più semplice come il Kentuki. Ma mi sono detta anche che un’invenzione del genere sarebbe molto più invasiva, nelle nostre vite, perché ti permetterebbe di guardare da vicino ogni singolo istante delle giornate degli altri. Da lì è arrivata l’idea di questi buffi animaletti. E del doppio sguardo, della doppia prospettiva che consentono ai personaggi del romanzo. Perché, nella storia, puoi avere un Kentuki, limitandoti a osservare gli altri, o essere un Kentuki, per lasciare che sia chi nemmeno conosci a entrare nella tua intimità”.

Il romanzo è una sintesi interessante di letteratura alta e racconto pop…

“All’inizio, quando ‘Kentuki’ è uscito in Argentina, i critici nelle loro recensioni usavano termini come ‘distopia’, ‘fantascienza’. Facevano riferimento alla serie tv ‘Black Mirror’. Citazioni che mi piacciono molto sia come lettrice che come spettatrice. Però, nel romanzo non c’è nulla di tutto ciò. La mia è una storia completamente realista. Non accade niente di straordinario. Mi sono chiesta più volte: perché la testa del lettore va in quella direzione? Connettere il wi-fi al tablet che usiamo per la lettura non viene considerato affatto fantascienza”.

Forse non siamo ancora coscienti di quanto la tecnologia sia presente nelle nostre vite?

“È così. Tutti i nostri dispositivi tecnologici sembra diano fastidio a chi scrive libri, e a chi li legge. Se inventiamo una scena in cui un amico vuole parlare con l’altro, lo facciamo salire in macchina e lo spingiamo a viaggiare fino a lui. Come se non fosse più facile usare un telefono cellulare, o mandare un messaggio con qualche applicazione. Se, poi, lo scrittore usa un termine un po’ più tecnico, allora il libro diventa immediatamente ‘di genere. Sembra che ci sia in noi la volontà di negare l’importanza della tecnologia”.

La letteratura può essere lo spazio nel quale misuriamo il nostro stare in società?

“Sono d’accorso. Proprio per questo dico che sulla tecnologia non abbiamo ancora riflettuto abbastanza. Nel nostro pensiero non le abbiamo fatto spazio. Preferiamo esorcizzarla”.

E così, per paura di parlarne, ci avviamo verso il tempo in cui l’Intelligenza Artificiale potrà creare qualche problema?

“Il rapporto con un’intelligenza diversa dalla nostra ha sempre creato problemi all’uomo. Fin dal tempo della preistoria, il progredire, il raffinarsi degli strumenti con cui miglioriamo la nostra vita, ha generato inquietudine. Adesso, preferiamo non parlarne. Se non per evocare scenari apocalittici. E non abbiamo il coraggio di ammettere quanto importante sia il ruolo della tecnologia nella realtà di ogni giorno”.

Quando ha scoperto il desiderio di scrivere?

“Mi sembra di scrivere da sempre. Perché amo le storie. Da bambina, quando mia madre leggeva per me una favola, o la inventava, le chiedevo sempre di lasciare uno spazio bianco alla mia fantasia. L’avrei riempito io stessa. Quindi, già allora provavo il desiderio di immaginare. Amo da sempre leggere, e questo è stato molto importante nel mio percorso di avvicinamento alla letteratura”.

<Alessandro Mezzena Lona<

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