La vita è piena di assenze. Buchi neri pronti a inghiottire, in ogni istante, chi non abbia il coraggio di guardare fino in fondo al buio. Vuoti terribili che fanno tremare le gambe e il cuore. E che richiedono appigli assai solidi a cui aggrapparsi. Sostegni robusti per non lasciarsi trascinare fino in fondo all’abisso. Certezze totali, come la fede in Dio. O in un dio qualunque. Una presenza enigmatica, eppure ipnotica. Un’entità sfuggente ma, al tempo stesso, presente. Capace di regalare illusioni. Di valorizzare l’essenza stessa dell’essere umani, passando per la via luminosa e ardua della spiritualità.
Assenze che stringono in una morsa Phoebe, la protagonista femminile de “Gli incendiari”. Uno dei migliori debutti letterari di questi anni, senza dubbio. Prova ne sia che il romanzo di R.O. Kwon, tradotto da Giulia Boringhieri per Einaudi (pagg. 197, euro 18,50), è stato segnalato negli Stati Uniti tra i migliori romanzi usciti un anno e mezzo fa da oltre quaranta testate.
Sì, perché Phoebe ha capito molto presto che non sarebbe mai diventata una concertista osannata e stimata dopo aver ascoltato lo “Studio n. 5” di Libich. E ha smesso di suonare il piano, un po’ come capita a Wertheimer ne “Il soccombente” di Thomas Berhard quando si rende conto che non potrà mai raggiungere la personalissima genialità di Glenn Gould. Ma non è solo la musica che manca a questa ragazza bruna, sottile, di origine coreana, assai popolare tra gli studenti dell’Edwards. Lo stesso college che frequenta Will, un suo compagno che si è lasciato alle spalle, in California, il sogno di salvare la madre da una grave depressione aggrappandosi alla religione. A una fede accecante che ha abbandonato, dopo anni di devozione, quando un giorno si è inginocchiato per pregare, sentendo subito che, al di là del silenzio, non c’era nessuno ad ascoltarlo.
Phoebe Lin è tormentata da un’altra assenza: quella di sua madre. La donna che la ha amata di più. Morta, un disgraziato giorno, in un incidente stradale, facendo scudo con il proprio corpo alla figlia, che in quel momento stava guidando senza fare troppa attenzione. Normale, poi, che la ragazza provi a percorrere ogni strada che la aiuti a riempire quel vuoto: dal sesso libero all’alcol, dalle canne a un ritmo di vita compulsivo,. Fino a sfiorare l’apatia.
Fino a quando, un giorno, compare sulla sua strada un uomo. Dice di chiamarsi John Leal. Sostiene di avere aiutato i dissidenti coreani a raggiungere clandestinamente Seul, scappando dalla Corea del Nord. Fino a quando è stato rapito, chiuso in un campo di concentramento. Torturato e costretto ad assistere a violenze inaudite. Scampato per miracolo alla morte, e rientrato in America, non è riuscito a cancellare dalla propria mente i ricordi più brutali di quella prigionia. Tanto da avere una visione. Una sorta di epifania rivelatrice che lo ha spinto a fondare un gruppo mistico chiamato Jejah. Una setta di ispirazione cristiana, ferocemente antiabortista.
John Leal, il predicatore scalzo, è sicuro di riuscire a colmare nel cuore di Phoebe quel “buco a forma di Dio”, come lo definisce l’ex credente Will, che non si fida più dei giochi di magia e degli abacadabra di tanti santoni e guru baciati all’improvviso dalla Verità. Con un lento, inesorabile, gioco di seduzione, il santone dalla faccia qualunque riesce ad attrarre la studentessa nel cerchio ristretto degli adepti di Jejah. La convince che soltanto la fede potrà colmare le sue assenze. Che soltanto Dio riuscirà a riempire i vuoti terribili che la portano a vivere ripiegata su se stessa, come una trottola che continua a roteare soltanto per inerzia.
Ma c’è chi, ne “Gli incendiari”, non si rassegna alla discesa della studentessa nell’abisso di una fede ingannevole. Infatti, Will prova a guarire Phoebe con l’amore. Contrasta i suoi sensi di colpa coinvolgendola in una vita di coppia che, come sempre, si rivela imperfetta. Anche perché lei non ha mai sperimentato sulla propria pelle quanto forte, eppure falsa, sia l’illusione che l’affidarsi ciecamente a un credo possa risolvere tutti i propri problemi. John Leal è più forte. Porta impresse nella carne le stigmate di chi fa della propria vita uno show infinito. Un romanzo tutto da scrivere. A cui, ogni tanto, si aggiunge un capitolo inedito. Che nessuno è in grado di smentire o di confermare.
“La verità. Ognuno di loro era arrivato da John Leal distrutto, con una disperata richiesta di guarigione – scrive R.O. Kwon ne ‘Gli incendiari’, dove le due lettere stanno a indicare il suo nome inglese, Reese, e quello coreano, Okyong. Visto che la scrittrice, nata a Seul, nella Corea del Sud, è arrivata a Los Angeles con la famiglia quando aveva tre anni, ha frequentato l’Università di Yale e scrive per testate prestigiose come “The New York Times’ e ‘The Guardian’ -. Poiché il dolore assume forme mutevoli, lui aveva cercato di adeguarsi ai loro bisogni. In poche parole, si era modellato a immagine e somiglianza dei suoi discepoli”.
La lotta tra l’amore e il richiamo di una fede ingannevole diventa il campo di battaglia tra Will e John Leal. E se l’uno, lo studente, può contare soltanto sulle proprie insicurezze e sulla certezza che Phoebe Lin sia la ragazza con cui vuole vivere, l’altro metterà in campo tutta la sua ingannevole forza di seduzione. Fino a trasformare l’esperienza della setta Jejah, apparentemente improntata sulla ricerca della felicità, in un incubo.
Costruito su un intreccio di voci, dove Phoebe, Will e John Leal forniscono al lettore la propria transitoria visione della storia, R.O. Kwon costruisce un romanzo mai gridato, eppure carico di una forza perturbante. Perché “Gli incendiari” non è soltanto un viaggio nel dolore che ognuno di noi porta dentro di sé, spesso senza mai riuscire a esorcizzarlo. E non è nemmeno uno sguardo lucido e impietoso sulle ingannevoli motivazioni che portano a infatuarsi di un traballante credo, a fidarsi di un improbabile guru. Ma è soprattutto un’adrenalinica e profonda riflessione su quanto sia difficile leggere nel cuore, nei pensieri degli altri. E quanta forza ci voglia a combattere la battaglia per la salvezza di un altro. Senza fare ricorso alla prevaricazione. Alla violenza.
<Alessandro Mezzena Lona<