Non abbiamo più occhi per vedere quella mano. Perché ci chiede un soldo. Un dollaro. Una moneta. Un pezzettino di quella ricchezza che abitiamo ogni giorno, senza rendercene conto. Non abbiamo più il cuore per prenderci cura di quella mano. Perché dovremmo fermarci ad ascoltare la sua storia. Farcene carico, capire quando il mondo le ha girato le spalle. Non abbiamo più gli occhi per guardare quella mano. Perché, altrimenti, dovremmo accorgerci che è bagnata di pioggia. Forse trema per il freddo. E nel suo cavo, riluce una carta bianca. Che non sapremo mai quale messaggio contiene.
Nel cavo di quella mano, PJ Harvey chiude tutta la nostra indifferenza. E tutte le storie che potremmo stare ad ascoltare. Se solo ci fermassimo per qualche istante. Se solo rallentassimo la nostra corsa pazza. Ma dovremmo prenderci del tempo. Esattamente come ha fatto lei, una delle più acclamate musiciste del nostro presente. La poetessa rocker che ha inciso dieci album apprezzatissimi dalla critica e dal pubblico: “Dry” del 1992, lo splendido, ruvido, “Rid of me” del ’93. E poi gli ipnotici “Stories from the city, stories from the sea”, “Let England shake”, per due volte segnalati con il Mercury Prize. E ancora “To bring you my love”, “In this desire”, “Uh huh her”, “White chalk”, “To hope six demolition project”, la colonna sonora “All about Eve”, che l’hanno portata a essere nominata per sei volte ai Grammy Award. Tanto che nel 2013, Polly Jean Harvey, figlia di un artigiano e di una scultrice, cresciuta in una piccola fattoria del Dorset, è diventata Membro dell’Ordine dell’impero Britannico per il suo contributo alla musica.
Dal 2011 al 2014, PJ Harvey ha deciso di viaggiare. Non per raggiungere le solite mete sognate dai turisti. No, lei ha preferito vedere da vicino due zone di guerra di cui tanto si sente parlare, ma che sembrano confinate agli angoli estremi della galassia: il Kosovo e l’Afghanistan. E poi, si è spinta fino a Washington D.C., il centro di gravità del Potere americano. La capitale dove vengono ridisegnate, ogni giorno, le sorti del mondo. La città che veglia sempre sugli affari degli altri, per non trovarsi poi a dover fronteggiare chi si è immischiato nelle sue faccende.
In questo viaggio, PJ Harvey ha voluto accanto a sé un famoso fotografo, che ha puntato gli occhi sulle zone di crisi nel mondo. Seamus Murphy, infatti, è stato capace di raccontare quello che stava accadendo in Afghanistan e Sierra Leone, in Libano e Perù, in Palestina e Irlanda. Con i suoi reportage ha vinto ben sette World Press Photo Award. Il compagno di strada perfetto, insomma, per portare a compimento un progetto che è diventato, poi, un libro. Si intitola “Il cavo della mano”, lo ha tradotto Matteo Campagnoli per La nave di Teseo (pagg. 231, euro 25), senza attenere purtroppo grandi riscontri in Italia.
Per la musicista, questo libro r<appresenta il suo vero e proprio debutto come autrice di poesie. Seamus Murphy, invece, aveva già alle spalle altre pubblicazioni, oltre ai “12 short films” realizzati per accompagnare l’uscita di “Let England shake” della stessa PJ.
Il fascino di PJ Harvey autrice di poesie è uguale a quello della musicista che ha scritto canzoni splendide come “Good fortune”, “This is love”, “Dress”, “Ride of me”, “Down by the water”. E che ha duettato con un altro grande poeta della musica, Nick Cave, nel brano “Henry Lee” delle sue “Murder ballads”. Polly Jean, infatti, sa cogliere la forza di un gesto, il mistero di uno sguardo, il fascino di un corpo, la disperazione che sta dentro un discorso trattenuto. Ma racconta anche la pietà di una vecchia, bella strada, dove “hanno tolto gli alberi / e hanno costruito le case. Pietà per la vecchia strada / e per gli alberi a destra e a sinistra”.
Nei versi di PJ Harvey ci sono i bambini che non sanno se potranno sperare in un futuro, dopo aver assistito al passaggio tenebroso della guerra. Ci sono i vecchi che non si aspettano più niente dalla vita. Le donne che hanno conosciuto, e sopportato, ogni tipo di violenza. E, poi, le zone del pianeta Terra abbandonate da tutti, che continuano ad aggrapparsi a piccoli sogni e che vivono giorno dopo giorno, perché costruire progetti è troppo rischioso.
C’è il Kosovo di “una cassetta / di una canzone triste”, dove “un giovane con i jeans slavati / vaga per i binari”. E, poco più in là, “vagoni merci in fila / le porte arrugginite aperte” cedono il passo a “una sottile linea di margherite”, che corre “lungo una crepa al binario uno”. E c’è l’Afghanistan dove gli occhi dei bambini “ci attraversano / fissando vaste luci”. Dove “ragazzi dalle braccia deperite” vanno “porta a porta a chiedere del pane”. Mentre “i cambiavalute stanno seduti / accanto alle loro vetrine sbarrate”. Invocano “dio e dio e dio” quaranta uomini “inginocchiati in cerchio” nel fianco di un monte. Sudano, dondolano avanti e indietro, in una grotta. Ma il loro dio è lì, accanto a loro, “nei corpicini / scuri dei bambini / umidi nella nebbia / che giocano nel cimitero / scalzi / a dicembre”. E che si illudono di risolvere ogni loro problema intonando una litania, per chi li osserva dai vetri di una macchina. Dice solo una parola, sempre la stessa: “Dollaro, dollaro”.
Ed è lì, a Washington, che esplodono tutte le contraddizioni di un mondo che si è abituato a “gettare il nulla”. Perché anche nel lusso gridato della metropoli, nell’abbondanza conclamata, tra i tetti dei centri commerciali e il palazzo della Corte Suprema, tra il marciapiede del Campidoglio e l’ombra di un colombo che “solitario canta tre note senza sosta”, risuona sempre la medesima, monotona richiesta: “Hai una moneta, hai una moneta?”.
Lo sguardo inquieto e umanissimo di PJ Harvey si riflette nelle immagini che Seamus Murphy ruba alla realtà. Fotografie di case sventrate, animali uccisi, bambini dagli occhi grandi e pieni di inquietudine, donne invecchiate prima che il tempo passi loro accanto, uomini pronti a rinnegare qualunque idea sui cui avessero giurato un tempo.
Un mondo che non sa più dire quale sarà il suo domani. Mentre in fondo alla strada risplende implacabile “un minuscolo sole rosso / come un fanale posteriore / lungo il cavalcavia”.
<Alessandro Mezzena Lona<