• 08/04/2022

Francesca Violi, “L’abbaglio” del Bene e del Male

Francesca Violi, “L’abbaglio” del Bene e del Male

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Arrivati a questo punto, è davvero difficile tracciare dei confini netti nell’ambito della letteratura. Quando ci si chiede, ad esempio, dove finisca il romanzo letterario e cominci il romanzo di genere. Nessuno si sognerebbe di liquidare “Il giro di vite” di Henry James come un romanzo horror. Ma non sarebbe consentito nemmeno etichettare “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad come un racconto di viaggio. E allora perché ci si ostina a classificare tanti libri moderni all’interno di rigide categorie? Visto che perfino un grande saggista e filosofo come Tzvetan Todorov trovò delle difficoltà immani a definire il concetto stesso di letteratura fantastica. E a suddividere, poi, i diversi sottogeneri, dovendo dare a ognuno di loro una fisionomia ben precisa e perfettamente delineata.

Nel terzo millennio, allora, le categorie, i confini, le definizioni sembrano destinate a non dire più niente. se non a aiutare gli editori, quando compilano i riassunti per i risvolti di copertina, a orientare il lettore. Spesso fornendogli soltanto generiche coordinate di quello che troverà all’interno del libro.

Può capitare, così, di confrontarsi con i testi di una scrittrice come Francesca Violi rinunciando del tutto a incasellarla dentro contenitori letterari rigidamente predefiniti. Nel suo romanzo di debutto “Sulla riva” (Elliot, 2020) l’ex architetta di Reggio Emilia, che ha lavorato a Milan e vive in provincia di Treviso, aveva già fatto capire ai lettori che le piace muoversi seguendo traiettorie narrative sghembe. Costruendo trame che partono da lontano, dall’oscuro evolversi della vita dei singoli personaggi, per deflagrare poi in un confronto implacabile tra Bene e Male. Senza imporre derive manichee, ma lasciando che sia la storia stessa a mettere in luce i lati più ambigui e imperscrutabili dell’umano agire.

Se vogliamo, nel secondo romanzo “L’abbaglio” (Elliot, pagg. 281, euro 17,50), Francesca Violi dilata ancor di più questa sua totale libertà di costruire la narrazione senza seguire schemi predefiniti. Al centro della storia c’è un giardino incantato. Un centro olistico creato nel bosco della Fonte da Veronica, una donna che crede fermamente nell’indispensabile forza del rapporto tra uomini e Natura. Lì ci lavora Melissa, maestra tuttofare dell’asilo dedicato ai bambini di famiglie piuttosto danarose, che ha un grande debito nei confronti dell’ideatrice di quel posto da sogno. È stata lei, infatti, a convincerla a rivolgersi al dottor Campani per curare suo padre, ammalato di cancro.

Le cure alternative non sono riuscite a fermare la Morte. Eppure, Melissa è convinta che suo padre abbia percorso l’ultima fase della vita con grande serenità. Grazie ai movimenti di Attivazione Energetica che lei non ha smesso di praticargli, come ha consigliato Campani. E anche grazie alla purificazione fisica dai cibi artefatti, dalle troppe sostanze chimiche ingoiate. Eppure, quando trova un flacone di pastiglie per calmare i dolori, la ragazza comincia a farsi delle domande. Non riesce più a esorcizzare i dubbi di avere sbagliato tutto. Di non essersi accorta della sofferenza di papà, perché troppo concentrata a sostenere quella visione alternativa della medicina e del mondo.

Al dolore e al rimorso, al turbamento e allo smarrimento, si aggiungono l’angoscia e la preoccupazione per il possibile smantellamento del ricovero per cani abbandonati. Un’oasi, osteggiata soprattutto dalle famiglie confinanti con “I cani del canale”, che l’amico Rudy gestisce con amore dopo essersi scrollato di dosso un passato oscuro. Dentro quel guazzabuglio di pensieri, Melissa finisce per perdere la lucidità e la convinzione di avere agito bene. Medita vendetta, progetta di dare una lezione esemplare a Veronica, che l’ha spinta a credere nelle cure alternative forse solo per tornaconto personale. E, al tempo stesso, cerca di farsi venire un’idea per trovare in fretta i soldi che possano mettere al sicuro l’amato canile.

Da un cocktail esplosivo di rabbia e buoni propositi, di feroce desiderio di vendetta e lodevole empatia, prende forma l’idea di architettare il sequestro di un bambino all’interno dell’asilo nel bosco della Fonte. Per chiedere, poi, alla famiglia un cospicuo riscatti. I soldi serviranno a costruire la barriera di protezione del canile, che metterebbe fine alla bega legale con i vicini di casa.

Sembra un piano perfetto. Ma, come sempre accade, la storia si ingarbuglia.

“L’abbaglio”, pagina dopo pagina, assume la struttura di un racconto forte e centrato sulla pericolosa mutevolezza delle emozioni. Mette in scena l’inquietante evidenza di come la devozione e l’ammirazione possono trasformarsi in rancore e odio. Scava nella mente dei personaggi, porta a galla in maniera spietata i loro lati oscuri. Li costringe a fare i conti con le maschere che si impongono di indossare quando è necessario.

Francesca Violi tesse la trama de “L’abbaglio” con grande lucidità, con ottima scelta dei tempi narrativi. Costruisce personaggi che non pagano dazio alla finzione, ma vivono la loro storia di carta senza mai risultare falsi. Il romanzo, nel suo evolversi, muta pelle in continuazione. Procede in piena luce fino a quando è costretto a immergersi nell’oscurità. Racconta come un’idea nata per fare del bene, senza evitare di usare le armi del Male, finisca sempre per seminare terrore, odio, conseguenze disastrose e imprevedibili. Fa capire che la manipolazione della persone, anche fatta con buoni propositi, alla resa dei conti semina soltanto tempesta.

“Buona la seconda”, verrebbe da dire con una battuta. Anche se Francesca Violi aveva dimostrato, già nel suo debutto narrativo, di avere imboccato la strada giusta. Per costruire romanzi-romanzi come “L’abbaglio” che non abbiano paura, quando serve, di immergersi nelle “grande brodaglia” narrativa, diceva Henry James, dei romanzi di genere.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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