Scrivere, per Clarice Lispector, era come gettare una pietra in un pozzo profondo. E poi aspettare che dai cerchi concentrici formati sull’acqua si aprisse un varco. Un arcano pertugio che squadernasse davanti agli occhi dello scrittore, e di conseguenza anche del lettore, l’invisibile nucleo della realtà. Per lei, nata in Ucraina nel 1920, e morta a Rio de Janeiro in Brasile nel 1977, ogni parola porta dentro di sé il battito di un cuore. Ascoltare quel ritmo significa essere disposti a dare voce a tutte le domande a cui non sappiamo rispondere. Sintonizzarsi, insomma, con il lato segreto dell’esistenza. Per regalare un eco non soltanto alle storie che ogni narratore va inventando, ma al mistero che le lega alla vita stessa.
Scrivere, per Clarice Lispector, non era mai un atto banale. L’autrice venuta da Čečel’nik in Ucraina, figlia di una famiglia ebrea russa, convinta della sua totale “brasilidade” fino a rivendicare il fatto di essere “pernambucana”, ovvero cresciuta nello stato che ha Recife come capoluogo, rivendicava il fatto di riuscire a mettersi in contatto con la parte più nascosta, più segreta, più misteriosa di se stessa ogni volta che iniziava un nuovo viaggio tra le parole. Viveva una sorta di stato di coscienza alterato da riprodurre sulla pagina, con limpida, luminosissima, implacabile precisione. Con una felicità che non poteva liberarla dal tormento.
“Da un mistero è venuta, verso un altro è partita. / Restiamo ignari dell’essenza del mistero”, scriveva il poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade. Confermando la sensazione che tutti i romanzi di Clarice Lispector, ogni singolo racconto, rappresentino uno dei più esaltanti, originali, personalissimi e perturbanti approcci con il magma incandescente della letteratura. “Il lampadario”, tradotto daVirginia Caporali e Roberto Francavilla per Adelphi (pagg. 282, euro 19) è soltanto l’ultimo degli esempi dello sciamanico approccio con. la scrittura di questa autrice che avrebbe meritato il Nobel per la letteratura. Ma non si può non citare “”Vicino al cuore selvaggio”, “La passione secondo G.H.”, “Legami familiari”, “Un soffio di vita”.
Basta leggere le prime righe de “Il lampadario”, terminato da Clarice Lispector a Napoli nel 1946 e pubblicato lo stesso anno, per capire che il lungo viaggio dentro le pagine della scrittrice brasiliana ha sempre il sapore di un percorso esperienziale. Di un’iniziazione al cuore segreto della letteratura. “Per tutta la vita lei sarebbe stata fluida. Ma quello che aveva dominato i suoi contorni e li aveva attirati verso un centro, quello che l’aveva illuminata contro il mondo e le aveva dato intimo potere era stato il segreto. Non sarebbe mai stata in grado di pensarci con chiarezza, nel timore di invaderne l’immagine e dissolverla. Il segreto aveva comunque formato dentro di lei un nucleo remoto e vivo, senza mai perdere la magia – la sosteneva nella sua indissolubile vaghezza come l’unica realtà che, per lei, avrebbe dovuto essere sempre quella perduta”.
Lei è Virgínia, una ragazzina magra che corteggia la solitudine, vive in una grande casa dove i mobili spariscono un po’ alla volta, “venduti, rotti o troppo vecchi”, ma resiste un vecchio lampadario. “Vetri e cristalli addormentati nella polvere”, simbolo di un passato di benessere ormai svanito. Specchio segreto di un mondo che, adesso, nasconde dietro la propria sconsolante normalità le ombre inquiete di una vita ancora tutta da scoprire. All’amico e scrittore Lúcio Cardoso, che le rimproverava la scelta troppo dimessa per il titolo del romanzo, Clarice Lispector rispondeva che a lei piaceva proprio perché conteneva tutta la povertà del mondo che aveva descritta.
La tenuta di Granja Quieta è lo scenario dove Virgínia prende le misure della vita e del mondo. Affiancata da un padre troppo irascibile, da una madre evanescente, dalla sorella Esmeralda che rappresenta la distanza siderale tra chi ha già cominciato a fare i conti con la realtà e chi ancora deve scoprirne le istruzioni per l’uso. Su tutti, però, giganteggia il fratello Daniel, di poco più grande di lei. Una sorta di guardiano della soglia in miniatura che la accoglie nell’esclusiva Società delle Ombre. Spalancando la sua sensibilità alla certezza che, al di là del confine dei gesti quotidiani, pulsi la nebulosa del mistero. Un altrove che sarebbe facile raggiungere, se soltanto la vita non fosse così tragicamente incanalata dentro il solco di parole che hanno perso il loro reale significato. Di azioni compiute in una sorta di eterno dormiveglia.
È la scoperta di un cappello che scivola lungo il fiume, e che loro immaginano possa appartenere al corpo di un annegato, ma anche la scatola piena di ragni velenosi dove brulica quella vita che Daniel può spegnere con un semplice gesto di indifferente crudeltà, a dettare il tempo della scoperta. Metronomo del divenire umano che non ha bisogno di seguire una linea temporale dritta, perfetta. Prova ne sia che “Il lampadario” si frange presto, seguendo traiettorie che portano Virgínia ormai grande ad allontanarsi dal mondo di Granja Quieta. Per scoprire, nel susseguirsi di amori difficili, di incontri interlocutori, “che il posto dove si è stati felici non è il posto dove si può vivere”. Dal momento che, scrive Clarice Lispector, “vedere la verità era diverso da inventare la verità”.
“Sfinge di se stessa, arcano vivente, donna-lupo, felino, donna che assomiglia a Marlene Dietrich e scrive come Virginia Woolf, Kafka al femminile, maga incantatrice, perfino uomo!”, ha scritto Roberto Francavilla nella postfazione al volume che raccoglie “Tutti i racconti” di Clarice Lispector, pubblicato da Feltrinelli nel 2019. Tentando, con questa giaculatoria di definizioni interlocutorie, di fissare un identikit umano e letterario di quella che rimane forse la più sfuggente tra le artiste contemporanee. Più di Anne Sexton, più di Marguerite Duras, più di Anna Maria Ortese. Perché il grande fascino della scrittrice brasiliana sta tutto nella sua scrittura, non nella vita, non nei dati biografici, non nelle cose che si dicono di lei.
Il mistero di Clarice Lispector è legato a quella capacità inimitabile di fare delle parole una composizione polifonica. Di arpeggiare il linguaggio distillando le storie dalla sintonia e dalla dissonanza, dagli echi, dai riverberi. Il suo incantesimo, annotava lei stessa in “Acqua viva”, è di scrivere “con tutto il mio corpo, scagliando una freccia che penetri nel punto tenero e nevralgico della parola”. Vivendo, “solo, abbandonato, felice, vicino al cuore selvaggio della vita”, come diceva il suo amato James Joyce.
<Alessandro Mezzena Lona