“Ciò che è accaduto resta coperto dallo stesso silenzio di prima”. È l’anno 2000 quando Annie Ernaux scrive queste parole in un libro. Non può più tollerare quel silenzio, la scrittrice francese di Lillebonne. Perché le donne, anche all’inizio del terzo millennio, continuano a vivere su di sé, sul proprio essere più delicato, la stessa violenza e la medesima omertà. Che inchiodano loro alla solitudine nel momento in cui prendono la decisione dolorosissima di abortire. Che le costringono a vivere un momento drammatico della loro esistenza nella vergogna e nella totale emarginazione. Trattate come se squarciare il proprio corpo, fin nelle parti più intime, fosse un giochetto inventato nei momenti di noia. Come se il decidere di interrompere il formarsi di una vita nuova fosse un capriccetto da ragazzine annoiate, che non trovano di meglio da fare.
Non può restare in silenzio, Annie Ernaux. Perché la grande scrittrice francese ha vissuto sulla propria pelle il dramma dell’aborto. Ne aveva già parlato nel suo romanzo di debutto, “Gli armadi vuoti”, pubblicato in Francia nel 1974, e tradotto in Italia per Rizzoli da una delle nostre più brave autrici: Romana Petri.
All’inizio del terzio millennio, Annie Ernaux sente l’urgenza di ritornare a confrontarsi con un tema così doloroso e controverso. Visto che, anche se moltissimi Paesi hanno approvato leggi che tutelano le donne nel momento dell’interruzione della gravidanza, la pressione su di loro è ancora troppo forte. Tanto da spingere rappresentanti di confessioni religiose, politici, intellettuali, a riproporre la stessa violenza verbale contro il mondo femminile. Chiedendo a gran voce che la dolorosa rinuncia alla nascita venga equiparata all’omicidio.
Annie Ernaux si rimette a scrivere: “Può darsi che un racconto come questo provocherà irritazione, o repulsione, che sia tacciato di cattivo gusto. Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo”. Nasce, così, uno dei suoi libri più belli, sconvolgenti e forti: “L’evento”. Pubblicato dalle Éditions Gallimard nel 2000, adesso è entrato nella prestigiosa collana della casa editrice L’Orma nella splendida traduzione di Lorenzo Flabbi, che è stato insignito del Premio Stendhal e del “La Lettura-Corriere della Sera” per il suo lavoro.
Ma perché raccontare dopo tanti anni un’esperienza così drammatica? Chi conosce e apprezza i libri di Annie Ernaux Sto arrivando! bene che la scrittrice francese ha sempre fatto della propria vita l’impasto narrativo delle sue storie. Anche ne “L’evento” non può nascondere che “forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri”.
E allora, Annie Ernaux ritorna a quell’ottobre del 1963. E lo fa affidandosi prima ai ricordi. Alle sensazioni provate da una studentessa in Lettere di 23 anni che deve riandare con la memoria a un sabato e una domenica di un più recente mese di luglio. Ai momenti trascorsi con un un uomo a fare l’amore. E, poi, al terrore di avere contratto l’Aids. L’attesa all’ospedale Lariboisière di una risposta, esattamente come tanto tempo prima. “Immersa nello stesso orrore e nella stessa incredulità”.
Purtroppo, in quell’ottobre del 1963 il responso non era stato confortante. Per la “Sig.na Annie Duchesne la data presunta del parto era fissata per l’8 luglio 1964”. E allora, che fare? Difficile trovare conforto nel ragazzo brevemente desiderato e forse amato, che non aveva nessuna intenzione di ritrovarsi all’improvviso a recitare il ruolo del padre. Impossibile chiedere consiglio in giro, visto che la legge parlava chiaro: “Verranno puniti con la detenzione e sanzioni pecuniarie l’autore di qualunque azioni abortiva”. E, poi, erano previste pene severe anche per i medici, le ostetriche, i farmacisti e “chiunque si sia reso colpevole di aver consigliato e favorito queste azioni”. Ovviamente, non era ammessa nessuna misericordia per le donne che decidessero di interrompere l gravidanza.
Annie Ernaux racconta il calvario di una ragazza che deve vivere questa “esperienza umana totale” in perfetta solitudine. Senza poter dire niente ai genitori, sottoponendosi a un aborto clandestino rischiosissimo. In casa di una “fabbricante di angeli” pagata a caro prezzo e indicata a Annie Duchesne da una ragazza che ha rischiato la vita per avere deciso di non partorire.
In pagine intensissime, scavate nella disperazione e nel dolore, che non possono lasciare indifferente chi legge, Annie Ernaux descrive in maniera implacabile il comportamento dei medici, di chi poteva aiutarla, ma non l’ha fatto, più per paura che per una vera convinzione etica. Aggiunge ai ricordi alcuni passaggi di pagine di diario, intrise di tutta l’angoscia di una donna che si trova spinta ai margini della società. E che, alla fine, si rende conto che le era necessario vivere sulla propria pelle “quella prova e quel sacrificio per desiderare di avere figli Per accettare la violenza della riproduzione nel mio corpo e diventare a mia volta luogo dio passaggio delle generazioni”.
Secondo un canone, un lavoro letterario ormai collaudato da Annie Ernaux, anche “L’evento” si rivela una sfida in campo aperto alla tentazione di trasformare la vita in qualcosa di immaginario, poetico, fasullo. Perché, annota l’autrice francese, “nello scrivere devo resistere alla tentazione di lasciarmi andare al lirismo della collera e del dolore. Non voglio fare in questo testo ciò che non ho fatto nella vita in quel momento, o comunque così poco, urlare e piangere. Solo restare più vicina possibile alla sensazione di un corso stagnante di infelicita”.
Ecco, sta tutto qui il valore altissimo de “L’evento”. Perché il libro riesce a trasformare una storia personalissima e dolorosa nel paradigma della condizione femminile davanti al dolore, alla solitudine, all’emarginazione. Alla decisione difficilissima e, a volte, necessaria, di salvaguardare e salvare la propria vita a scapito di un’altra vita, ancora in divenire.
Annie Duchesne, alla fine de “L’evento”, diventa un simbolo. L’immagine della donna crocefissa alla crudeltà dei pregiudizi, dei dogmi, di una morale di comodo. Ma anche l’incarnazione di tutte le persone che devono valicare leggi scritte a tavolino dai burocrati del quieto vivere. E che rischiano di apparire, agli occhi della società, come pericolosi elementi di disturbo.
<Alessandro Mezzena Lona<